Quando il metano ci dava una mano

di

Giovanni Giovannetti

Vi fu un tempo, gli anni Cinquanta del secolo scorso, in cui le cose avrebbero potuto prendere un’altra piega: l’Italia dei Mattei, dei Gronchi, dei Dossetti e dei Vanoni prefigurava infatti un Paese capace di svolgere un ruolo di primo piano nel bacino del Mediterraneo, coltivando politiche energetiche votate all’interesse nazionale.

Metano in Val Padana

Il sottosuolo della pianura Padana trasuda infatti di gas naturale, e grazie all’illustre economista e ministro democristiano alle Finanze Ezio Vanoni (il mentore del futuro presidente dell’Eni Enrico Mattei), l’Agip ne detiene i diritti in esclusiva.

A Cortemaggiore, in provincia di Piacenza; a Ripalta Cremasca, in provincia di Cremona e a Caviaga presso Lodi si cercava il petrolio e si trova il metano. Lo si sapeva dal 1943, ma la notizia viene tenuta nascosta per sei anni, così da assicurare all’Italia, e non a potenze straniere, questa preziosa fonte di energia: un asso nella manica, visto che un metro cubo di metano consente prestazioni almeno pari a quelle che si ottengono con un chilo e mezzo del miglior carbon fossile ma a un costo praticamente dimezzato; e la capacità produttiva dei soli due giacimenti di Caviaga e di Ripalta è indicata in circa un milione e mezzo di metri cubi giornalieri.

Da subito due metanodotti collegano Caviaga ai poli industriali di Sesto San Giovanni sopra Milano e di Dalmine presso Bergamo. Altre condotte seguiranno, costruite dalla Società nazionale metanodotti (Snam) sorta nel 1941: forzando i tempi e la burocrazia (cosa fatta capo ha…), nell’autunno del 1952 il gas naturale ha già raggiunto le città di Milano, Pavia, Novara, Varese, Bergamo, Lecco, Cremona, Brescia, Parma, Reggio Emilia, Torino, Verona, Mantova, Vicenza, Modena, Bologna e numerosi altri centri minori.

Il metano della Val Padana conferisce all’Ente nazionale idrocarburi – Eni, fondato nel 1953 – risorse pressoché illimitate (13 miliardi di metri cubi per una rendita di 130 miliardi l’anno) che permettono all’Ente petrolifero di decollare senza dover ricorrere al mercato finanziario. Ed è indiscutibile il ruolo che questi giacimenti di metano hanno avuto nel favorire il nascente boom economico nazionale.

L’oro di Mosca

Il petrolio che manca nel sottosuolo italiano, l’Eni andrà a cercarselo all’estero: Egitto, Iran, Marocco sono i primi Paesi nei quali Mattei reinveste i profitti del metano. Nel 1960 l’Eni di Mattei condurrà in porto il clamoroso accordo con la Sojuzneftexport, l’agenzia sovietica per l’esportazione petrolifera, per la fornitura di 12 milioni di tonnellate di greggio in quattro anni al prezzo, vantaggiosissimo, di 1,26 dollari al barile, risparmiando così il 40 per cento sul prezzo allora praticato dalle compagnie occidentali e a ristoro vendendo all’Urss 240mila tonnellate di tubi di grande diametro per le condotte petrolifere, assieme ad altre componenti prodotte dalla Finsider (gruppo Iri) nonché pompe e attrezzature per oleodotti dalla Nuovo Pignone di Firenze e 50mila tonnellate di gomma sintetica dell’Anic di Ravenna.

Sia ben chiaro che l’Italia non è l’unico Paese “atlantico” a intavolare rapporti d’affari oltre cortina: nonostante la “guerra fredda” comprano il greggio russo anche la Germania occidentale (il 10 per cento del fabbisogno nazionale), la Grecia (il 25), la Svezia (il 25), l’Austria (il 65) e la Finlandia (il 77 per cento); e vendono tubi ai sovietici, anche più dell’Italia, sia la Germania dell’Ovest che il Giappone. Business is business, ma il problema parrebbe essere l’intraprendenza di Mattei, che passo dopo passo smette di essere un «petroliere senza petrolio» – così lo canzonano i petrolieri texani – e comincia a farsi spazio tra i “grossi” del “cartello”, le cosiddette “Sette sorelle”, locuzione coniata da Mattei per indicare le americane Esso, Mobil, Chevron, Gulf Oil e Texaco, la britannica Bp e l’anglo-olandese Shell. Mattei ambisce a svincolare l’Italia dalla servitù del petrolio, mettendo in discussione «la pretesa delle grandi compagnie petrolifere di massimizzare i profitti» a spese dei Paesi produttori e profetizzando la collaborazione fra Stati consumatori e Stati produttori.

Società paritetiche

Nel 1955-’56 l’Eni promuove un accordo con il governo egiziano, guidato da Gamal Abd el-Nasser, per lo sfruttamento dei campi petroliferi di El Belaym nel Sinai da parte della Compagnie orientale des pétroles d’Egypte (Cope), una società paritetica: all’Egitto il 75 per cento dei proventi; all’Eni il 25 per cento e l’onere della ricerca. Seguiranno accordi analoghi con Iran (1957) Marocco (1958), Libia (1958, accordo solo abbozzato), Sudan (1959), Tunisia (1961) e Nigeria (1962) cui presto si sarebbe aggiunta l’Algeria, da poco indipendente. Con l’ex colonia francese d’Algeria si era ormai a un passo da un grandioso accordo globale di cooperazione economica, a partire dal gas sahariano: e sarebbe stato un deciso passo a favore di Mattei nel faccia a faccia con le “Sette sorelle”.

All’attività di ricerca e di sfruttamento dei pozzi petroliferi presto l’Eni affiancherà quella di raffinazione e distribuzione, con stabilimenti a Mohammedia in Marocco, a Biserta in Tunisia, a Tema in Ghana e in Svizzera, Polonia, Kenia, Uganda, Nigeria, Giordania e persino in India, solo per citarne alcuni. Ne consegue lo sviluppo della rete distributiva sia in Africa che in Europa.

Mattei l’ammazzano il 27 ottobre 1962 nel cielo sopra Bascapè, in quello che poi verrà derubricato a “incidente aereo”. L’ultima indagine sulla sua morte, condotta tra il 1994 e il 2003 dal magistrato pavese Vincenzo Calia, ha se non altro il merito d’aver accertato che fu una bomba e non il caso a provocare l’”incidente”.

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