Pasolini contro Calvino, nuova edizione

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Ci sono autori che, da soli, riassumono un’epoca. E altri che, se messi a confronto, la rivelano ancora meglio.
Questo saggio del 1998, ora ripresentato con una nuova prefazione dell’autrice, ha segnato una svolta negli studi letterari italiani. Le possibilità per la letteratura non erano solo quelle incarnate dal tardo Calvino, e diventate egemoni in quegli anni. C’erano anche quelle paradossali, performative, e ancora poco comprese di Pasolini, intrise di un’urgenza sentimentale e di un senso tragico della storia, tuttora all’altezza del drammatico nostro tempo.

A partire dagli anni sessanta, sia Pasolini che Calvino attraversano una crisi produttiva che li spinge a una metamorfosi radicale. Non è solo Calvino a mutare stile da un’opera all’altra, con i suoi proverbiali «cambiamenti di rotta». Anche Pasolini passa attraverso una sperimentazione incessante, disseminata di «abiure»: cerca una via d’uscita dalla logica imprigionante dell’arte moderna, di cui, come Calvino, sente acutamente l’estenuazione. Ma reagiscono in maniera antitetica ai nuovi scenari della tarda modernità, e le loro opposte soluzioni ci mostrano in azione i dilemmi che ancora ci coinvolgono. Qual è la forza della parola poetica nell’epoca della comunicazione mediatica? L’ironia o la parola diretta? «Descrivere il mondo» o «gettare il proprio corpo nella lotta»?

Qui altre informazioni sul libro

Qui sotto una pagina della nuova prefazione

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Collocare Calvino e Pasolini l’uno accanto all’altro, l’uno sullo sfondo dell’altro, plutarchianamente, dava drammaticità alle loro rispettive operazioni artistiche e permetteva anche di far risaltare qualcosa che mi pareva fosse rimasto ancora in ombra negli studi critici sui due autori.

Questa scelta mi fu rimproverata come un’astrazione arbitraria.[1] Tra i contemporanei di Calvino e Pasolini c’erano altre voci importanti che non si potevano ignorare: Fortini, Volponi, Morante, Moravia, Parise, Arbasino… È vero. Ma è anche vero che non tutti gli scrittori di quel periodo sarebbero stati capaci di sprigionare, una volta accostati, una differenza di potenziale altrettanto significativa. Non solo per la distanza abissale che separa le tarde opere di Calvino e di Pasolini quanto a soluzioni espressive e all’idea di letteratura che le sorregge, ma anche perché questi due poli opposti si erano formati da un terreno comune, nascevano da un percorso simile, come risposte antitetiche agli stessi agenti atmosferici del clima culturale del tempo. Le loro ultime produzioni fuoriuscivano da una tradizione letteratissima, che aveva improntato le loro prime poetiche, quelle per cui avevano ricevuto attenzione e successo. Entrambi mossi da una costante insoddisfazione, da un’inquietudine produttiva, che li spingeva ad abbandonare le “facili” soluzioni già sperimentate.  Non era solo Calvino a mutare da un libro all’altro stile e impostazione di voce, con i suoi proverbiali “cambiamenti di rotta”. Anche Pasolini passava attraverso una sperimentazione incessante, per di più disseminata di “abiure”. La crisi che entrambi vivono negli anni ’60 è un trauma produttivo, che li spinge a una metamorfosi radicale. Altri scrittori italiani hanno attraversato in quegli anni quelle stesse tempeste di incertezza, cercando di mutare nel mutato panorama, ma Pasolini e Calvino le hanno riflesse, metabolizzate e fatte fruttare nel loro operare artistico con una radicalità che non ha l’eguale.  Dopo quella crisi – come scrivevo in questo libro – rinascono ognuno su un altro pianeta: due pianeti diversi e distanti, ma che hanno avuto origine dalla stessa esplosione. 

La diade aveva anche un’altra motivazione. Mentre le scelte di Calvino erano diventate paradigmatiche e facevano sistema – anche perché lui stesso ne aveva fatto sistema – quelle di Pasolini, nonostante i tanti suoi scritti teorici sul cinema, sulla lingua, sulla poesia, sul teatro, restavano in ombra: oscurate non solo dall’esuberanza del personaggio carismatico, ma anche da quel “sistema” calviniano divenuto egemone nella cultura italiana, e che aveva finito per nutrire un’idea angusta di letteratura, un’idea ragionevole e disincantata, con tutto il suo corredo di restrizioni quanto a ciò che era ancora possibile fare nel campo dell’arte della parola. In un contesto culturale in cui si richiedeva la “riduzione dell’Io”, un autore discreto che scompaia dietro al testo, il distacco ironico dalla propria voce, l’autoironia di chi non crede più di tanto nella propria attività artistica, era quasi inevitabile che le scelte di Pasolini risultassero illeggibili: l’ingombrante presenza autoriale nelle sue opere, l’io lirico dispiegato, l’assenza di ironia e,  soprattutto, quel suo continuare ad attribuire all’arte della parola una potenza sentita da altri come inattuale. Come cercavo di mostrare in questo libro, il suo paradossale rifiuto dello “stile”, quell’andare oltre la sfera convenzionale riservata alla letteratura, quel suo sconfinare fuori dal recinto estetico in cui la modernità l’ha relegata, andavano nella direzione di un rafforzamento della parola artistica. E anche il salto nel cinema non era per Pasolini un’evasione dall’arte verbale verso un mezzo più potente, ma un potenziamento della poesia stessa in una dimensione multimediale, dove la forza della parola, dell’immagine e della musica si moltiplicano vicendevolmente.

Uno degli intenti di questo libro era di portare alla luce le ragioni poetiche dei dispositivi discorsivi dell’ultimo Pasolini, mostrare la consistenza di quelle sue scelte artistiche non ancora pienamente comprese dalla critica. Ma ciò significava anche aprire una breccia in quel paradigma calviniano, assolutizzato come l’unica via ormai percorribile dagli scrittori di fine millennio. I presupposti ideologici su cui si fondava la canonizzazione di Calvino erano infatti gli stessi che confinavano Pasolini in una sorta di illegalità estetica

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[1] Ad esempio Alberto Arbasino, in un articolo sul “Corriere della sera” del 29 marzo 1998: “Povero Calvino, finito (come il povero Pasolini) nelle piccolezze di una pratica critica sprovveduta, che mostra di conoscere due autori in tutto”.

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