L’età della ferita. Intorno ai “Diari” di Kafka

di

Marco Ercolani

Quattro estratti da L’età della ferita anticipati da una nota di Jonny Costantino.

È nella sala macchine kafkiana che si svolge l’ultimo libro in prosa di Marco Ercolani edito da Medusa.

È un dialogo stringente tra Kafka e l’altro, L’età della ferita, stringente e vertiginoso. Stordenti schegge dei Diari entrano in contrappunto con le riflessioni dell’altro. L’altro di Ercolani – la sua ultima maschera – è stavolta «un filosofo praghese, contemporaneo di Kafka, che iniziava, nel settembre del 1938, a pochi mesi dalla rivolta della Cecoslovacchia antinazista, a leggere e a commentare la versione autografa dattiloscritta dei Diari, con tanto di correzioni e disegni dell’autore», con le parole della Premessa.

L’età della ferita è un libro che sonda con grazia l’abisso, una grazia dagli occhi sgranati, l’abisso in cui Kafka s’è tuffato incoraggiato dal cuore snudato di Baudelaire, come ci rammenta il filosofo che una notte Marco Ercolani – psichiatra oltre che scrittore – ha sognato di essere. Un libro che ruota intorno a ciò che «solo nelle ossa può essere vissuto» e lo fa con lirismo, col lirismo pensosamente compresso proprio di questo autore la cui urgenza di autenticità trova nella forma dell’apocrifo un terreno ideale. È un libro di pensiero, L’età della ferita, un libro che del farsi prosa del pensiero ci restituisce – innanzitutto – la poesia.

Questo libro agile e intimo è uno di quelli da portarsi dietro e centellinare con gusto. Così ho fatto io nell’ultimo mese e, ora che l’ho terminato, non lo depongo verticale in libreria. Devo continuare a tenermelo vicino perché i nodi che punge e le lampadine che accende sono quelli cruciali. Cruciali per una lingua che accetti di lasciarsi pervadere e perturbare dalle soglie che va a toccare e smuovere. Perciò avrò bisogno di tornarci ancora e ancora per godermi il confronto corroborante con due voci consonanti – quella di Franz e quella di Marco – nonché per abbeverarmi allo iato germinale aperto dal loro dialogo.

Ciò detto, non ti parlo della bellezza del libro, te la faccio provare, in quattro botta e risposta.

JC

I

22 luglio 1913
Sono trascinato dentro la finestra del pianterreno di una casa mediante una fune intorno al collo e sollevato, sanguinante e dilaniato, senza riguardo, come da uno che sia disattento, attraverso tutti i soffitti delle stanze, i mobili, i muri e i solai, finché in alto sul tetto appare il laccio vuoto che soltanto allo spezzarsi delle tegole ha perduto anche i miei resti.

*

Trascinato, oggi, da una gioia incredibile e mai provata prima, a essere felice sulle sponde del lago, in compagnia di nessuno. Dimentico i lacci e i tetti. Respiro. Ma, soprattutto, faccio durare il respiro nei miei polmoni, in modo che ne siano risanati. Mi piace che l’aria circoli bene, che i corpi siano belli e puliti, non avviliti dal tanfo degli abiti non lavati. Il mondo è ancora pieno di possibilità, che un musicista saprebbe definire non come un canto preciso ma come gli “armonici” inudibili di una canzone gioiosa, appena sussurrata, un corale bachiano, un’aria handeliana. Conosci Bach, Franz? No, non ci siamo frequentati abbastanza. La causa non è la diversità dei secoli in cui siamo vissuti ma un certo non so che di eccessivo in lui. Doveva costruire e raggiungere la perfezione. A me non è concessa neppure l’imperfezione delle cose. Mi scorrono davanti e non le colgo perché sono troppo impegnato a guardarmi. Quando da bambino mi dissero che non era necessario parlare, mi accorsi di aprire la bocca e di iniziare un discorso che non avrei più interrotto.

II

4 agosto 1917
Le fragorose trombe del nulla.

*

Talvolta Kafka mi parlava del Giudizio Universale ma come di un momento di assoluto silenzio, dove nes- suna tromba sarebbe mai echeggiata. Nel silenzio l’uomo decide tutto: cosa fare e cosa non fare. «Le “trombe del nulla” sono un luogo comune buono per melodrammi mediocri» bisbigliava Franz. Avrei voluto che qualche bella favola boema, con rospi che si trasformano in prìncipi, lo salvasse da quel dannato radar puntato all’interno del suo corpo e al quale non si sottraeva mai. Ma poi capii che solo in quel modo, solo aderendo interamente a quella sonda spietata, poteva davvero parlare per tutti noi. Citava spesso Baudelaire: «Dal lato morale come da quello fisico, ho sempre avuto la sensazione dell’abisso». E da allora l’abisso non lo ha mai lasciato. Se non avesse letto Il mio cuore messo a nudo, forse non avrebbe avuto il coraggio di essere quello scrittore con quel punto di vista preciso: la vita che precipita in morte. La vita-verso-la-morte è il solo luogo possibile della scrittura.

III

20 gennaio 1922
Più silenzio. Com’era necessario! Appena si fa un po’ di silenzio, esso è quasi eccessivo, come se acquistassi il vero senso di me stesso solo quando sono insopportabilmente infelice. Ed è anche giusto che sia così.

*

La giustizia del silenzio. Definitiva, forse eccessiva, ma reale. Per lui la sola via possibile fra due punti è una corda tesa nella quale puoi solo inciampare. Ma il silenzio non tradisce, non ti fa vacillare: devi riconoscerlo. Per esempio, quando sfogli i volumi della tua libreria e ne tocchi solo la copertina esitando ad aprire il libro, a penetrarlo ancora: lì si annida il silenzio. Kafka mi ripeteva spesso che non gli sarebbe dispiaciuto guardare nelle teste altrui, vedere quelle masse aggrovigliate, ma poi non sarebbe bastato scriverne, occorreva sciogliere i nodi e come avrebbe potuto farlo, con quale autorità? Al massimo avrebbe potuto consigliare a un pazzo di essere come lui, né sano né malato, né morto né vivo, perché morire è stupido quanto vivere. Lui vuole solo comunicare ciò che non si comunica. Parlare di ciò che ha nelle ossa e che solo nelle ossa può essere vissuto, come paura di tutte le cose, come nostalgia di tutte le cose.

IV

29 marzo
Nella corrente.

*

Forse quella del fiume in cui gli piaceva nuotare, ma da scrittore Kafka non appartiene a nessuna corrente, mé metafisica né letteraria. Lo leggi, lo ascolti, e ogni volta ricominci da capo. Quando lo leggi sei davanti alla porta del suo tempio. Puoi fuggire, se vuoi, e chiudere il libro. Ma, se entri in quelle pagine, sei condannato a leggere: non solo lui ma il mondo che emerge dalle sue parole e che è anche e soprattutto tuo. La “condanna” temuta da Kafka non è l’enigma: l’enigma vero è la tua empatia con il suo spavento interiore. Del resto, lui lo disse a Milena: «Uno è stato mandato fuori come colomba biblica, non ha trovato niente di verde e si infila di nuovo nell’arca buia: ecco tutto».

Franz Kafka con Max Brod
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