Castor Seibel: l’eleganza del cuore

di

Jonny Costantino

Castor Seibel (ph. Domenico Brancale)

Martedì 26 luglio, a Parigi, è morto Castor Seibel.

Giusto qualche riga e il rimando a una conversazione di diciassette anni fa, adesso che l’ematoma dello shock comincia ad assorbirsi e che il dolore per la perdita comincia a cristallizzarsi – a cronicizzarsi – nella mancanza. Cominciano appena. 

Nato a Bonn e radicato a Parigi, Castor Seibel ha scritto. Chi voglia saggiare come la sua sensibilità artistica e il suo ritmo intellettuale si traducano in prosa si procuri – in traduzione Italiana – il saggio Barceló o della pittura (2009) e la scelta di lettere Un’amicizia. Castor Seibel e Giacinto Scelsi (2019).

Quest’uomo ripetutamente ritratto da Barceló ha scritto e viaggiato e collezionato e tutto il resto. Castor Seibel ha vissuto, soprattutto ha vissuto, e la sua più grande opera d’arte è stata – mi sbilancio – la propria vita. Un romanzo, la sua vita, anzi una mostra, meglio: un carteggio. Un impressionante epistolario novecentesco scavallato negli anni Duemila. 

Con Ezra Pound (ph. Karl-Heinz Bast)

La lingua di Castor Seibel è rapida e raffinata come la sua persona. Seibel era rapido tanto nel pensiero quanto nello slancio: il che equivale a dire che era un ricettivo e un intuitivo e – con le persone dotate di un certo brillìo che gli andavano a genio – un fenomeno di empatia e sintonia. La sua era una raffinatezza amante della semplicità. Questa particolare rapidità e questa particolare raffinatezza sono qualità che di rado, e solo nei migliori, vanno a braccetto. Un’altra caratteristica di Castor era la vibratilità. Per ragioni disparate – un sapore, una parola detta in un certo modo, l’affabilità di un cameriere – ho visto Castor vibrare. Vibrare e risuonare come la sua scrittura. Castor era sempre in ascolto.

Ed era sempre convivio con Castor. Parigi Venezia Bologna. Quanti bicchieri, quanti brindisi alla bellezza con le sue convulsioni, all’amicizia con le sue confessioni. Quanti ristoranti, che erano sempre eccellenti e andavano a periodi, sull’onda degli innamoramenti per non dire delle fissazioni di Castor, visto che a offrire era sempre lui. Ho voluto bene a Castor e credo che lui ne abbia voluto a me. Basti dire che una delle persone in assoluto più vicine a me è una delle persone in assoluto più vicine a lui: Domenico Brancale. Ho condiviso passioni con Castor. Passioni come il poeta Brancale e Zinédine Zidane, Michel Leiris e il vitel tonnè con capperi à-gogo.

Con Michel Leiris (ph. Karl-Heinz Bast)

Quale joie de vivre, Castor che giocosamente latineggiavamo Castoribus. Sapeva restituire persino a un pagnotta di pane spaccata in due il suo valore epifanico. Di che stupirsi: ai bei tempi se la faceva con Ungaretti. Su due piedi ho difficoltà ad avvistare qualcuno che più di Castor l’abbia incarnata, la gioia di vivere. Ma l’attribuzione del primato, dal mio pulpito, vale quel che vale, nella misura in cui la mia conoscenza di quest’uomo unico è parziale.

Di Castor ho conosciuto le luci e non le ombre e le ombre – in uomini mossi da una tale febbre di vita – sono direttamente proporzionali alle luci. Di Castor mi sono preso il miele senza l’amaro. Nemmeno una virgola fuori posto, nemmeno un accapo sbagliato ha stressato l’incanto, lo ha messo alla prova, ha chiesto all’incanto di compiere quel salto di verifica da cui le amicizie – forzate a non adagiarsi nella pacchia della contemplazione reciproca – vengono o stroncate o temprate.

Con Giuseppe Ungaretti (ph. Karl-Heinz Bast)

È sempre una gioia sapere che un amico è in buona compagnia. E Castor lo sarà. La sua inumazione definitiva avverrà al Père-Lachaise, il cimitero parigino che frequento assieme a quel tombarolo di Brancale con l’eccitazione con cui altri vanno in discoteca. La migliore delle compagnie: Chopin Colette Callas Seurat Saint-Simon Saint-Exupéry, giusto per nominare tre ci come Castor e tre esse come Seibel. Non vediamo l’ora di venirti a trovare, Castoribus, e presagiamo li terrai svegli tutti – farai venire le occhiaie alla Callas, il colesterolo a Seurat – a condizione che tu abbia trovato ad attenderti oltre il confine la Festa Mobile che forse talvolta, in vena di ottimismo, ti sarai augurato. A condizione, cioè, che i morti siano vivi.

Nel lontano e vicino 2004, leggendo Cheratocono – un mio testo breve apparso su “a camàsce”, l’oramai leggendaria rivista all’epoca composta (letteralmente) dal summenzionato Brancale – quell’occhio di lince strabica di Castor non s’ingannò sulla natura del mio scrivere e affermò tra le altre cose – in una lettera indirizzata a Domenico lettami da Domenico – che nei miei giochi di parole «la vita stessa è in gioco». Fu uno dei primi a cogliere, Castor, la tensione che fa da brace al mio fare. Le sue osservazioni – dove il rilievo sottendeva l’incoraggiamento – si sono trasformate, una volta digerite e assimilate, in una linea guida, in un test di tenuta di quel che forgio.

Fino a che punto – in ogni singola frase, in ogni singola immagine – la vita è in gioco? È una delle domande e il verbo essere sta per pericolosamente entrare. Che nessuna frase e nessuna immagine siano prive di conseguenze sulla vita: è un altro modo di metterla. Con Castor un simile assunto era il punto da cui partire.

Con Francis Ponge (ph. Karl-Heinz Bast)

Stai vedendo nelle foto il calibro dei tizi con cui Castor bazzicava?

Nel febbraio 2005 intervistai Castor insieme a Marco Dotti per “Il manifesto”, quotidiano col quale allora saltuariamente collaboravo. Marco, nei primi anni Zero, è stato un vulcanico compagno di avventure non solo letterarie nel segno di Artaud Genet Mishima e – nel rifrangere quella nostra indimenticabile chiacchierata con Castor all’hotel Tre Vecchi di Bologna, dove l’alemanno di Par(ad)is era un habitué – gli mando un saluto colmo di affetto confidando in un ritrovarsi più prima che poi.

26 luglio: il giorno in cui Castor è morto – a 88 anni meno quattro giorni – è il giorno nel quale nasceva 134 anni prima – nel 1888 – uno scrittore che nella vita di Castor ha ricoperto un ruolo decisivo per non dire iniziatico: Marcel Jouhandeau. Di seguito incollo qualche pennellata su Castor – che fece da cappello alla conversazione a tre del 2005 – e il primo botta e risposta che – guarda caso anzi destino – è proprio su Jouhandeau. 

Se l’assaggio ti stuzzica continua a leggere qui e – qualora volessi approfondire – non saprei consigliarti di meglio che i seguenti due scritti di Antonio Devicienti, paladino di audacie poetiche nel quale Castor aveva finalmente trovato lo sguardo profondo e attento che la sua vitarte meritava: Per un omaggio a Castor Seibel (2019) e Sulla purezza e sull’amicizia (2020).

Con Jorge Luis Borges (ph. Karl-Heinz Bast)

RICORDI FRANCESI TRA FOLLIA E POESIA

Conversazione con Castor Seibel

a cura di Jonny Costantino e Marco Dotti

Uomo dal temperamento mite e dalla presenza discreta, Castor Seibel non ama fornire dettagli precisi sulla sua biografia. Settanta anni, tedesco di nascita ma francese per indole e predilezione, formatosi alla scuola della «Nouvelle Revue Française» di Jean Paulhan, è entrato in contatto, grazie al suo lavoro nel rinnovato contesto editoriale del dopoguerra, con alcuni dei principali esponenti della letteratura italiana ed europea, da Savinio a Marcel Jouhandeau, da Carlo Levi a Francis Ponge, autore, quest’ultimo, con cui nel 1983 – a coronamento di un lungo ed esclusivo sodalizio artistico – ha scritto un libro molto noto, La Façon de faner des tulipes. Fu a Roma, a casa di Giuseppe Ungaretti, che lui e Ponge si conobbero per la prima volta. Iniziò allora, fra i tre, un intenso scambio epistolare, e un non meno partecipato rapporto di collaborazione editoriale, legato all’altra grande passione di Seibel: la pittura e il collezionismo. Da anni, ormai, il suo nome figura fra quello dei principali conoscitori dell’opera di Fautrier, di Braque e di Barceló, autori a cui ha dedicato gran parte della propria attenzione e della propria passione. «Mai agire senza passione», ricorda Seibel. Così che una volta – per esempio – era in vacanza in Italia e gli capitò tra le mani il romanzo di un giovane scrittore. Il romanzo era Pao pao, e lo scrittore Pier Vittorio Tondelli. Seibel decise così, per passione, appunto, di tradurlo in tedesco. È solo un esempio di come la curiosità lo induca a spingersi ovunque vi sia da ricercare e da scoprire qualcosa che abbia anche solo lontanamente a che vedere con i territori impervi della poesia e dell’arte.

Lei ha frequentato a lungo l’opera di Marcel Jouhandeau, dedicandogli studi importanti. Come è nata questa passione?

Avevo ventisette anni, e volevo scrivere una tesi in letteratura francese. Era l’undici ottobre del 1963, e sulle pagine del «Figaro littéraire» mi capitò di leggere il necrologio di Cocteau firmato da uno scrittore che gli era stato vicino, Jouhandeau appunto. Mi colpì molto, per il tono non di circostanza. Era semplice, era poetico, era la prova di un lutto veramente e intensamente sentito. Allora pensai che proprio a lui avrei potuto dedicare la mia tesi. Conoscevo i suoi scritti, che mi avevano colpito perché rivelavano un vero talento da cronista. Una cosa è un romanzo, un’altra è la cronaca, e Jouhandeau era stato, e sempre sarebbe rimasto, un cronista. Sapevo comunque che la sua produzione non si riduceva certo alle note pubblicate sulla «Nouvelle Revue Française». Penso a La Jeunesse de Théophile, romanzo non molto lontano dai primi lavori di Julien Green. Ma Green è ciò che si può chiamare un «visionaire de la fiction», ha immaginato qualcosa, è un grande poeta della prosa. Marcel Jouhandeau, al contrario, è un grande poeta della realtà, è uno di quegli uomini che vivono il momento, e sono capaci di rendere questo momento grazie a ciò che Henri Cartier-Bresson chiamava «l’istantanea decisiva». Il fascino di Jouhandeau non è nel suo stile, è, semmai, in qualcosa che lo eccede, qualcosa che chiamerei un’eleganza del cuore.

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Accanto al Portrait di Michel Leiris di Francis Bacon (ph. Domenico Brancale)
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