Voci di cavalle pazze in tempo pandemico

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Come molti di noi umani e tutti noi umani che amiamo leggere libri, questo periodo dominato dal virus ha significato piazzare in maniera quasi alfierianamente inamovibile i beneamati glutei sulla sedia e darci dentro con cose cartacee e anche, molto, elettroniche (PDF).

A me in particolare è capitato di avere la fortuna (e quell’incremento di tempo dovuto all’orrendo problema che la vita sociale fuori di casa è diventata) di leggere più del solito e di avere il privilegio accordatomi da amici e amiche che scrivono, o anche solo di persone che scrivono (di cui poi sovente sono diventato amico per la bellezza di ciò che scrivono), di inviarmi i loro cantieri di scrittura e di permettermi così di interloquire con loro sui loro lavori mentre venivano, vengono elaborati.

È un privilegio duplice, perché si impara molto osservando un testo che si va componendo e non solo la sua versione finale (la famosa solitudine dello scrittore qui si attutisce di vari gradi e – ma questa la riconosco come una mia personale fissazione quotidianamente avversa dalla litigiosità reciproca che fiammeggia nel mondo delle patrie lettere – mi permette di tenere accesa l’assurda illusione di cui non posso fare a meno che scrivere sia perlomeno anche un gioco di squadra, cioè da qualche parte dev’essere vero che siamo più simili a una nazionale che va a confrontarsi con altre nazionali nello stesso gioco e non una serie di foche palleggiatrici ciascuna nella sua vasca, ma ok, basta così) e perché è bello proprio dal punto di vista del sentire umano intessere relazioni insieme personali, professionali e artistiche con gli altri.

Questo post mostruoso ha tre intenti: il primo è quello di recuperare uno iota di positività in questo periodo, il secondo è mettere in circolazione nomi e titoli che proprio la pandemia magari ha penalizzato e il terzo è quello di sperare di incominciare una riflessione a più teste sulla nostra letteratura, che secondo me sta passando un periodo di grazia e sta gettando le basi affinché il periodo di grazia continui a lungo nel futuro, senza che nessuno se ne accorga, tantomeno i graziati.

Mi scuso fin d’ora delle lacune tremende, questo è solo ciò che posso dire di ciò che ho letto io, che è una parte pietosamente minima della produzione letteraria (ma ho trovato per esempio in Marco Patrone un lettore esagerato e qui ci tengo a ringraziarlo anche da un punto di vista professionale, e come lui ce ne sono altri e il lavoro ferve!). E anche di ciò che ho letto, qui io dimenticherò senz’altro persone e titoli. Sarebbe bello e costruttivo che ci si aiutasse a fare un quadro più ampio della produzione di qualità – che secondo me è tanta.

Parlo rapidamente degli scrittori perché poi vorrei dedicare più spazio alle scrittrici, con dei motivi.

Privilegio massimo è stato leggere Il canto degli alberi (Edizioni Aboca, 2020) di Antonio Moresco, amico caro di una vita e secondo me il più grande fra noi, lo dico con piacere e senza nulla togliere a nessuno. Scopro ora – me lo ha detto mia figlia che lo studia per un esame – che l’albero della mitologia scandinava Yggdrasill (il frassino conosciuto da cerchie ristrette di studiosi e da milioni di lettori Marvel) è capovolto, con le radici in su a sorreggere l’universo e le chiome in giù e non dico altro perché il libro di Antonio, ok, non è danneggiabile da rivelazioni di nessun tipo, ma comunque. Quello è stato un privilegio in PDF.

L’amico Demetrio Paolin ha piazzato una zampata potente con la sua Anatomia di un profeta (Voland, 2020). Ricordo che eravamo in procinto di fare insieme una presentazione di questo suo libro e che l’abbiamo annullata preventivamente per sopraggiunto virus del cazzo. Questa è l’immagine più nitida che ho di come siano cambiate le cose drasticamente nel giro di giorni, ore. Ma i libri permangono, no? E poi Demetrio mi manda un PDF con gli abbozzi di una nuova creatura, che promette sinceramente benissimo.

E dell’amico e straordinario autore radiofonico Marco Drago ho letto in privilegio PDF un testo di bellezza aspra, scorticata, fluente, che se stavolta non viene pubblicato e subito e bene mi impegno a fare un casino pubblico a oltranza, costi quello che costi.

Il fraterno Davide Longo ha mollato la terza mina vagante di Bramard e Arcadipane (Una rabbia semplice, Einaudi Stile libero, 2021), privilegio PDF, che lo stratega Repetti ha liberato nell’ambiente insieme alle due precedenti puntate, riesumate da Feltrinelli. Questa prosa da falegname virtuoso, questi mondi costruiti passo per passo, questi due personaggi ortogonali, le atmosfere, la trama. Ma come si fa a non restarci impigliati? Prossimamente uscirà, del caro Andrea Canobbio, uno scrittore per cui non ho se non parole di ammirazione, un libro di assoluta bellezza (letto in privilegio PDF) dove la sua prosa di trasparenza infinita, nei confronti della quale quella di Calvino sembra una raccolta di appunti presi telefonando, e la sua geometrica precisione si lanciano su terreni roventi: ne risulta una specie di capolavoro sommesso a cui vorrei tanto togliere l’aggettivo.

Di Gherardo Bortolotti avevo letto la trilogia Low (2020) e le Storie del pavimento (2018) per le encomiabili edizioni Tic e la mia stima era salda, tuttavia in privilegio PDF ho letto il suo Romanzetto estivo, da poco in libreria. Difficile trovare un gioiello così rarefatto e vibrante, la stima è aumentata e adesso ormai ci mandiamo foto di posti strani, per amicizia e stima. Il mio desiderio sarebbe quello di vedere Gherardo e Tic in classifica. Amici di lunga data come Raul Montanari licenziano thriller o noir come vogliamo chiamarli sempre all’altezza e il suo ultimo Il vizio della solitudine (Baldini + Castoldi, 2021) è lì che mi aspetta con i suoi meccanismi certamente perfetti e lo struggimento immancabile che arriva sulla pagina direttamente dalla persona dell’autore.

E – non posso dirne nulla se non per pregiudizio positivo sull’autore e sui suoi libri precedenti – sto per accingermi a leggere anche Il cannocchiale del tenente Dumont, di Marino Magliani (L’orma, 2021).

E quindi siamo a Giulio Mozzi, privilegio PDF supremo, che ha piazzato in mezzo al paese il suo oggetto teologico misterioso, il suo grande orologio di precisione, tarato e ritarato e smontato e rimontato per anni e anni: ogni singolo meccanismo, ognuna delle varie molle, i bilancieri che si muovono con meccanica spietata regolarità, le innumerevoli minuscole viti, tutte al lavoro contemporaneamente. Un complessissimo orologio ultrapreciso dedicato a una sola cosa: NON misurare il tempo.

A Giulio poi devo una scoperta mirabile, e qui si passa alle scrittrici. Alle nostre cavalle pazze che, a differenza di quello che stiamo facendo noi (persino bene), più che alle strutture, alle dinamiche della composizione, alla manutenzione anche innovativa di moduli studiati in narratologia, più che a tutto ciò e non dimenticando nulla di tutto ciò, stanno secondo me giocando la partita su un terreno più vitale, più obliquo, quello delle voci e della libertà creativa, da cui abbiamo solo da imparare prendendone atto. Sono ciascuna a modo proprio uno sguinzagliamento di qualcosa, un gesto di allontanamento, di matura insofferenza, di prospettiva intuita e subito adottata.

Bene, Giulio, instancabile sempiterno lavoratore nell’editoria, ha preso a curare una collana per l’editore Laurana. La collana si chiama Fremen, dal nome di una popolazione presente nel ciclo di romanzi fantascientifici Dune di Frank Herbert, uno dei preferiti da Giulio stesso. Ora siamo al secondo titolo, l’interessantissimo Breve trattato sui picchiatori nella svizzera italiana degli anni Ottanta, di Manuela Mazzi (2021). Capita che Giulio mi chiami e mi chieda di scrivere la prefazione al primo volume della collana Fremen, cioè La questione dei cavalli, di Arianna Ulian, poi uscito nel 2020. Onorato da una richiesta di Giulio, resto ulteriormente riconoscente dopo aver letto il testo (privilegio, ma anche routine professionale, PDF). Qui siamo davanti a una scrittrice dall’estetica raffinatissima, dalla capacità compositiva fuori dal comune, di derivazione musicale. La storia si inabissa nelle frasi controllatissime e ne riemerge credibile, anche se non lo è. Un misto che mi ha lasciato ammirato. E questo libro dove si intrecciano varie voci tra le quali quelle di alcuni cavalli, mi permette di andare avanti sul tracciato del titolo del post Voci di cavalle pazze, perché Arianna Ulian, nel suo controllo formale estremo, lancia una scheggia folle in libreria, un testo percorso a sua volta da nervosismi equini, da un’adesione dell’autrice a questa modalità di essere animali completamente prerazionale, mimetica, persino preverbale. Ne esce la più inedita delle visioni di Venezia che io abbia mai letto. Un esordio? Alla faccia! Qui comincia la cavalcata delle nostre cavalle pazze (Murgia, lo dico con affetto e rispetto e stima e grandi aspettative).

Che sono di tipo diversissimo e di collocazione editoriale e anche estetica ancora più diverse. Prendiamo Daria Bignardi (privilegio PDF), che con la sua apparentemente liscia e anche quieta prosa di brillantezza calibrata per essere piacevole, ma senza attirare su di sé l’attenzione, rilascia al suo pubblico ben consolidato una storia di voci esplicitamente intrecciate, verrebbe da dire da fuori di testa, anche se non sembra. Cioè qui c’è una voce femminile che parla nella testa della protagonista essendo a sua volta un personaggio a tutti gli effetti. È la voce della pittrice tedesca Gabriele Münter che si installa nel cervello di Galla (la protagonista, chiamata così per via di Galla Placidia) e le fa da bordone intrecciando la propria storia d’amore con Vasilij Kandinskij a quella franata di Galla stessa con il suo Doug. E poi voce di psicanalista donna, e poi voce di psicanalizzata donna, e poi naturalmente un coro. Uomini a contorno. Tutto così, con passo elastico. Ma qui siamo fuori di testa! Qui le cavalle vanno proprio dove gli pare! (Oggi faccio azzurro, Mondadori 2020).

Trafficando in rete mi imbatto in un video dove una giovane scrittrice si riprende mentre pacatamente ma senza timori risponde nell’etere a un poco felice tweet sull’assenza di valenti scrittrici. Questa ragazza si prende la briga di rispondere. Lo guardo. Accidenti, che tranquilla ma inflessibile personalità, ma soprattutto una serie di argomenti che non mi sarei aspettato. Cioè me ne sarei aspettati altri. Incuriosito prendo il suo libro di esordio e per ora unico libro, L’esercizio (La nave di Teseo, 2020). Lei si chiama Claudia Petrucci, vive in Australia, ha da poco la doppia nazionalità, complimenti. Ora, L’esercizio ha le carte in regola per arrivare a un grande pubblico e per essere tradotto in molte lingue, e così è capitato. Infatti sembra una storia mainstream e forse lo è (niente contro il mainstream bello, niente mai contro il bello), tuttavia presenta subito una figura di narratore molto strana, cioè una voce di maschio (per le cavalle pazze è molto più semplice che per noi scimmioni indossare i panni narranti dell’altro sesso, se si può ancora chiamare così) che appare classicamente onnisciente, ma che non lo è. O meglio è onnisciente come narratore su fatti che come personaggio ignora. Ma che voce è? Poi la storia è una serie di tenaglie che vanno a stringere sempre più strettamente un quesito esistenzialmente drastico sul tema dell’identità personale, in particolare sull’identità femminile. Ma quella voce! E anche la capacità immaginativa un po’ paranormale dell’autrice. Sono tutti elementi che se questo è un libro mainstream, colorano il mainstream di cose che non si trovano facilmente nemmeno nelle ricerche letterarie più estreme e di nicchia. E qui, privilegio PDF, leggo le prime pagine del nuovo lavoro di Claudia Petrucci e mi confermo nell’idea che lei ha talenti particolarissimi, quello immaginativo soprattutto lo trovo qui ancora più vivido e impressionante. Le comunico che ho l’impressione che lei in certi posti inesistenti in qualche modo ci sia stata di persona, per poterli rendere così vividamente. Lei mi risponde: È proprio così. Non dico altro. Cioè lei potrebbe fare in gran scioltezza un romanzo realistico di mera fantascienza, non so come dire con maggior pertinenza. Ora, Dio dell’editing, io ti prego di salvaguardare la scrittura di questa giovane autrice e ti prego di infondere ai tuoi fedeli editor e editori e commerciali e tutti quanti, nei suoi (ma non solo nei suoi) confronti il coraggio che spesso non hanno, per cui si riducono a pavidi professorini con una matita blu in mano e un occhio strabico puntato su un mercato che loro stessi contribuiscono a rendere banale e moribondo.

Idea da applauso a scena aperta, da standing ovation, quella di Stefano Friani e Emanuele Giammarco di dedicare una casa editrice alla pubblicazione esclusiva di racconti. Ed ecco appunto che dal 2016 la casa editrice romana Racconti lotta nel mondo delle nostre lettere per difendere e valorizzare questa forma di scrittura meravigliosa che per motivi imperscrutabili – nella migliore delle ipotesi, grotteschi nell’ipotesi plausibile (non si vendono, i lettori vogliono il romanzo) – trova difficoltà ad arrivare agli scaffali delle librerie. Ma ecco che un’amica mi suggerisce di dare un’occhiata al PDF di un’autrice di racconti che proprio da Racconti sarà pubblicata, e io apro il file. Che strana aria che circola. Qualche accenno alla Edgar Allan Poe, un sottotraccia inquietante di derivazione (sembrerebbe) buzzatiana (o landolfiana?) una quotidianità apparentemente bidimensionale che si apre all’improvviso su territori gotici, un impasto, in altre parole, molto interessante. Sono i racconti della raccolta Neroconfetto di Giulia Sara Miori (2021), davvero pasticche profumate dal cuore micidiale.

Una cavalla veramente fuori di testa è Veronica Tomassini un’autrice che seguo e apprezzo da anni. La sua scrittura furiosa, lacerata e instancabile non si sa da dove le venga. La sua voce, le sue voci: un misto inestricabile di grida e sussurri, di gemiti e preghiere. Giustamente consapevole del proprio valore all’ennesimo rifiuto editoriale del suo Vodka siberiana si è imbizzarrita sul serio e se lo è autoprodotto (2020), dopo aver pubblicato da Marsilio, Feltrinelli e Miraggi, per dire. Ora un agente l’ha presa a cuore e la sta riportando dentro l’alveo dell’editoria di fascia alta che le compete, per il bene suo, nostro, ma anche di quell’editoria.

Giorgia Tribuiani (privilegio PDF e Fazi 2021) si lancia in un’impervia, sia tecnicamente sia emozionalmente, cavalcata pazza alla seconda persona singolare, nel suo intensissimo Blu. Questa è una voce al limite dell’ingestibile, ma Giorgia Tribuiani con una grande mossa piega il ramo della seconda singolare come fosse un legno della sedia Thonet e lo presenta così artisticamente e funzionalmente domato in modo da sostenere in piena leggibilità una intera nuotata in apnea che conduce i nostri polmoni di lettori e il cuore e il cervello a bramare ossigeno, aria, respiro, per pietà. E questi arrivano quando devono arrivare, non prima, non dopo (e il dopo ci potrebbe essere eccome).

Un’amica di lunghissima data, Eliana Bouchard, in privilegio PDF mi ha mandato la cosa che sta scrivendo, a poco a poco, a mano a mano che procedeva. Lei ha pubblicato da Bollati Boringhieri tre libri molto belli: Louise. Canzone senza pause (2007), La mia unica amica (2012) e La boutique (2018). Qui nel PDF ho trovato una libertà di invenzione totale, una smaltatura delle frasi e delle situazioni impressionante, una leggerezza d’intreccio di grandissima classe e un’accuratezza delle voci perfetta. Dio degli editori, sai cosa ti prego di fare. È una cavalla pazza, Eliana? Certo, perché pazza è solo l’aggettivo affettuoso della cavalla che va dove vuole andare. E questa è la lezione delle cavalle.

Gilda Policastro, con il suo La parte di Malvasia ha fatto un lavoro enorme, sulle voci e sulle identità narranti. Questo suo è un libro perfettamente riuscito, da leggere correndolo, per la fascinazione del canto che ne emerge, polifonico e popolare, colto e sardonico. Un canto che canta della morte e della vita e di chi siamo, ma siccome la batteria ha un ritmo incalzante, si può solo partire e andare avanti accelerando, non c’è altro modo per leggerlo, non c’è una pausa, non c’è una frase che sia stata detta solo da una voce, non c’è una voce che dica solo frasi intere, c’è questa Malvasia che alla fine non sappiamo nemmeno se c’è, e c’è questo incredibile investigatore che si chiama Gippo. Si può narrare la propria morte? Parrebbe di no. Certo che qui però Gilda Policastro va talmente veloce che forse riesce a fare inghippo alla fatal quiete. E, in ogni caso, restiamo con un Gippo da mettere nella sala delle coppe dei personaggi (privilegio PDF e ora La nave di Teseo, 2021).

E qui arriviamo a un libro sorprendentemente sorprendente, Enti di ragione di Marta Cai (edizioni SuiGeneris), che cade fuori dal novero degli scritti in periodo di Covid essendo del 2019. È in questa lista per due motivi: il primo è che il tempo pandemico mi ci ha fatto ritornare sopra con più attenzione, il secondo è che dell’autrice ho avuto il bene di leggere ciò a cui sta lavorando ora (privilegio PDF) e che ha tutta l’aria di essere anche questo una cosa sopraffina (un romanzo essenziale di ineffabile grazia e potenza, dalla scrittura furibonda, contrita, esasperata, tranquilla, elegante, soffocata, ispirata), per cui si tratta a tutti gli effetti di una voce che ho incontrato sostanzialmente in questo periodo. Enti di ragione è sorprendente da molti punti di vista. Per esempio, io difficilmente rileggo un libro e quasi sempre se lo faccio è perché l’ho letto ma poi mi si chiede di recensirlo o di parlarne e quindi non fidandomi della mia memoria lo rileggo. Questo libro invece l’ho riletto per caso ed è stato come se non l’avessi mai letto, tanto nuovo mi pareva di racconto in racconto, per voce – appunto – struttura e invenzione. Ma non solo: per umanità, per scavo ontologico e non psicologico, per assolutezza delle relazioni fra i personaggi, per l’inedito sostrato culturale che lo regge, infine per la visione del mondo e soprattutto della vita che ci passa. Mi sono chiesto come fosse possibile che un libro che mi era molto piaciuto, a rileggerlo mi piacesse ancora di più e soprattutto mi manifestasse solo alcune parentele con il sé stesso della prima lettura. Allora: esperimento! Me lo sono riletto una terza volta (questo mi è capitato solo per dare gli esami all’università) e, di nuovo, la stessa cosa. Una novità, sia rispetto a quello della prima lettura sia rispetto a quello della seconda. Io questa cosa non me la so spiegare. Mi era parso fin da subito un libro ricco e denso, ma non in questo modo. Marta Cai fa delle cose con la scrittura che non me le so ancora spiegare. Procede per linee spezzate, sa mescolare le coordinate più lontane in qualcosa che fila via liscio alla lettura, ma non all’interrogazione concettuale. Non si tratta solo di registri linguistici, c’è sotto qualcos’altro che io trovo di volta in volta più evidente ma contemporaneamente più nascosto. Questo libro scaleno, di razionalità surriscaldata, di dionisismo raffreddato, di lampeggiamenti improvvisi, di frasi dove nella stessa semplice descrizione di un gesto precipitano collassando pianeti strappati alle loro inimmaginabili orbite da una forza primordiale di natura imprecisata, questo libro non lo so definire, né descrivere (ok, è un libro di racconti, e con questo si è addirittura minata la giusta comprensione di cosa sia davvero), se non dicendo che è un libro-cornucopia: un libro in continua produzione di senso, un’erogazione dolorosamente vitale di una generosità pazzesca. Avendo appunto letto altre cose, inedite, dell’autrice, posso tranquillamente affermare che si tratta di una scrittrice-cornucopia (è per questo che fa libri-cornucopia) dalla quale è sicuro che ci arriveranno altre sgroppate scalene e trapezoidali da cavalla pazzissima e sempre più purosangue.

Un privilegio PDF è stato anche un testo scritto da Giada Ceri, autrice che presto rivorremmo vedere in libreria. Si tratta di una storia concretamente originalissima, cioè mette in scena un lavoro a cui non pensereste mai, e invece per forza che quel lavoro esiste e qualcuno lo deve fare. Eppure non ce lo si immagina. E poi la lingua dei nativi toscani: niente da fare, è bellissima.

Arianna Giorgia Bonazzi e Gessica Franco Carlevero sono cavalle fatte di pazzie opposte, per questo si conoscono, si apprezzano e sono molto amiche. Due privilegi PDF da loro, che confermano le scritture con cui hanno pubblicato in passato, ma con una determinazione che non c’era e che qui diventa un gesto di assoluta libertà: la prima corre verso frasi adamantine dove se non ci fai caso non capisci se si tratta di piacere o di dolore ciò che ti sta dicendo, la seconda corre, o meglio si inerpica, nei tralci di viti generose e prive di qualunque linea retta. Dio degli editori, sai.

E alla prima zeta c’è Alice Zanotti, che allestisce una mescolanza di voci fra la sua propria e quella della poetessa Amelia Rosselli. Ne risulta un libro originalissimo dove sostanzialmente nel rapporto tra due donne si ripristina la figura di Amelia come in altro modo non sarebbe stato possibile fare. Qui siamo all’alchimia (Tutti gli appuntamenti mancati. Un ritratto immaginario di Amelia Rosselli, Bompiani 2021).

E alla seconda e ultima zeta c’è Francesca Zupin, a chiudere l’ordine alfabetico che non c’è stato. Una scrittrice dalla scrittura colta, raffinata e classica. Suo faro: Proust. Ed ecco che la porta di un editore (sarà Bollati Boringhieri, occhio ai primi mesi del 2022) si apre. Il testo definitivo è in lavorazione, ma (privilegio PDF) ne ho letto una versione già stabile e secondo me pronta per la pubblicazione – un romanzo eccellente. Sono personalmente felice che stavolta il Dio degli editori abbia battuto un colpo (stia per batterlo). Una classica, colta, trattenuta, dal passo rotondo, può essere una cavalla pazza? Altroché, basti dire che è triestina. Grazie di cuore a tutti e a tutte per queste letture, veramente. Cose sicuramente belle non ancora lette ne ho ancora dentro il pc come PDF e nella pila di libri a fianco del pc. Ma questo post volevo farlo oggi.

Appendice del giorno dopo:
È proprio vero che le cose più vicine sono quelle che non si vedono, un po’ come per la Lettera rubata di Poe. In questo post non ho messo Annalisa Ambrosio, con cui invece in questi mesi pandemici ho avuto il piacere di condividere la stesura di un suo testo in un modo molto simpatico. Non solo privilegio di lettura PDF, ma privilegio di fare con lei come fa l’allenatore con l’atleta. L’atletica Annalisa aveva un sacco di cose da mettere sulla pagina e anche un sacco di cose da fare che le portavano via quasi tutto il tempo e talvolta anche le energie per farlo (di rado, perché lei è atletica veramente). Allora mi vestivo con la tuta dell’allenatore e (privilegio WhatsApp, stavolta) le intimavo: Manda. E lei, che è un atleta-soldato, di lì a poco mandava uno scritto. E così alla fine il testo c’è. Si intitola Poco mossi i restanti mari. È una cosa incredibilmente sia lontana sia vicinissima al suo libro Platone. Storia di un dolore che cambia il mondo (Bompiani, 2019).
E a me piace assai.


Dario Voltolini ha pubblicato questo intervento sulla sua pagina Facebook il 6 giugno 2021.









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