“Una possibilità del linguaggio” di Alfredo Zucchi

di

Alessandro Di Porzio

Alfredo Zucchi – già autore di La memoria dell’uguale e de La bomba voyeur, nonché fondatore della rivista CrapulaClub – ha pubblicato con Mucchi Editore Una possibilità del linguaggio. Pierre Menard come metodo. Questo saggio si propone di portare l’attenzione su di un fenomeno artistico (con un focus sulla letteratura) e sulla capacità che ha l’arte di inglobare il falso, l’inganno, l’inverosimile e il surreale nel reale. Il risultato è la discussione sulla tecnica delle attribuzioni erronee e del falso storico.

Non è per puro spirito sovversivo o dandismo chic: questa è solo una delle frontiere allargate dalla creazione stessa di questi testi. Ogni azione-testo crea lo spazio in cui esiste e, di conseguenza, un vuoto in prossimità, che potrebbe venir abitato da qualcosa di nefasto o, al contrario, incredibilmente benefico. Da cosa dipende questa differenza? Come sarà intuibile, da una molteplicità di fattori.

La riflessione che anima il saggio parte da delle considerazioni di Foucault sul linguaggio; o meglio, sui linguaggi che implicano loro stessi, legando questi ultimi alla storia della follia, alla trasgressione e alla letteratura. Zucchi unisce la “fuga verso il basso” della follia alla cifra Borgesiana della meta-letteratura che tematizza sé stessa:

“Le due prospettive, mescolate per contatto, sembrano indicare che questa meta si trova in basso e dentro; che il movimento necessario per avvicinarsi a essa è il movimento del linguaggio stesso; che il modo di questo movimento è una fuga; che questa fuga, nel suo movimento, crea lo spazio che chi scende si trova di volta in volta a occupare; che questo spazio è un vuoto, una piega scavata dall’interno del linguaggio che la condizione per adeguarsi a tale movimento consiste nell’abbandonarsi a esso senza riserve; che abbandonarsi a esso non è neutro ed è un rischio; che questo rischio è un affare personale, come l’amore, la vita o la morte.”

Nel saggio, viene esplorata una posizione filosofica dove due o più elementi sono opposti, ma non per questo auto-escludenti – due qualità che coesistono in una tensione inscindibile. Per dirla con le parole di Zucchi:

“Entrambe le direzioni, il solletico dell’umorismo da un lato, l’esasperazione del limite dall’altro, riguardano un peculiare posizionamento dello sguardo rispetto all’oggetto osservato: un’estrema prossimità, fino alla totale identificazione con esso; e allo stesso tempo una cesura, un’alterità, una distanza incolmabile. I due poli in conflitto coesistono; la tematizzazione di questa coesistenza nell’esercizio dello sguardo è ciò che in questo libro si chiama metodo Pierre Menard.”

Difatti, è la nostra posizione, il nostro punto di vista e le relazioni che questi instaurano con il mondo esterno, che fanno emergere una qualità piuttosto che un’altra. La possibilità che questa relazione venga arricchita, problematizzata ulteriormente, si concretizza in un vuoto – questo vuoto è fondamentalmente inesauribile; possiamo abitare questo vuoto, assumendoci il rischio di crearne uno nuovo, in cui scrutare e da cui venir scrutati.
Un esempio semplicistico sarebbe immaginarsi una discussione plenaria, ad esempio, sulla letteratura: il primo intervento si articola sul ruolo della letteratura, che apre immediatamente un vuoto, che potrebbe venir abitato con la domanda: riesce la letteratura ad essere ancora umanamente credibile? E se è umanamente credibile, come si interfaccia con la politica, essendo che entrambe sfruttano un coacervo di simboli ed idee per far risaltare un’ideologia? È possibile fare una letteratura critica di un’ideologia pur rimanendoci dentro? Come si allarga questo punto di vista, ad esempio, all’interno dello status di bianchezza? La letteratura che scriviamo, poi, quanto è formata e influenzata dal canone che è stato costruito in una società che ha beneficiato (e beneficia) di risorse sottratte al continente Africano (e non solo)?

Questa piccola discussione immaginaria potrebbe particolareggiarsi all’infinito (con punti focali e tematiche molto diverse) tendendo all’infinitesimale, ovvero stringendosi e guardando sempre di più nel vuoto, abitando il vuoto, come suggerisce Zucchi stesso. Su questa struttura di abitare il vuoto – e le sue successive definizioni/contrazioni – Zucchi impianta la sua critica letteraria, il metodo Pierre Menard.

La questione della tematizzazione di sé stessa, della meta-letteratura, rimane un concetto purtroppo di una certa astrazione, almeno per la prima metà del libro, e vale la pena soffermarcisi un attimo. Zucchi inizia con una citazione di Foucault, il quale sostiene che si è sviluppata una certa tendenza nella letteratura a partire da Mallarmé:

“La letteratura, scrive Foucault, da Mallarmé in avanti, ‘si sta lentamente trasformando a sua volta in un linguaggio la cui parola enuncia, nello stesso momento in cui dice e nello stesso movimento, la lingua che la rende decifrabile come parola’; da qui la strana vicinanza tra follia e letteratura. […] In questo senso l’essere della letteratura […] conquista la regione dove, da Freud in poi, avviene l’esperienza della follia.”

Zucchi si serve di questa concezione per parlare del “senso”, che potremmo vedere come il potenziale, la possibilità, che le parole hanno di cambiarsi tra di loro e di interagire con il mondo. Con le parole dell’autore:

“[…] ‘enunciando cioè nel loro enunciato la lingua nella quale lo enunciano’ Questa peculiare deriva tautologica della parola, della follia […] produce anche una ‘riserva di senso’: tale riserva non è da intendere come una scorta, piuttosto come una figura che trattiene e sospende il senso’; essa genera e gestisce un vuoto, questo vuoto produce due effetti: il primo è la possibilità che in esso si installi una certa significazione, e poi una seconda e una terza e all’infinito; il secondo effetto; esso non mostra e non dice altro che l’implicazione tra lingua e parola.”

Ben presto, nel saggio, il testo arriva a maturare la domanda: cosa succede quando il limite da superare è quello della realtà? Citando l’autore: “fare del discorso letterario il mezzo di una simile indagine vuol dire accogliere il falso, l’inganno e l’equivoco non solo come tappe ed elementi del percorso ma forse come il suo stesso orizzonte.”
Ad esempio, Zucchi può parlare di Pierre Menard come se fosse un autore in carne ed ossa (con volontà proprie e ben costruite) anche se esiste unicamente nel racconto di Borges, che, a sua volta, ne parla come di un autore di un testo reale, anzi, doppiamente reale, siccome Pierre Menard cerca di riscrivere il Donchisciotte verbatim, e, quando ci riesce, supera il testo originale, dato che la sua versione contiene anche il mondo posteriore al 1602 (anno di pubblicazione del Donchisciotte) pur rimanendo lo stesso libro.

Questa forma mentis risulta indispensabile se si vuole fare ciò che questo testo ci propone: abbandonarci al vuoto, ovvero, abbandonarci alla possibilità che il linguaggio, la letteratura e l’intero sistema dei simboli possono creare tanto la poetica, l’avanguardia, quanto il nazismo; come ci insegna Bolaño, o almeno, come sintetizza Zucchi per noi. Ciò che interessa maggiormente l’autore nella sua riflessione è intercettare un limite – che chiama prima morte, poi divieto, poi celebrazione della vita – e farlo esplodere, spostarlo; anche con il rischio – mai da dimenticare – di creare un vuoto ancora più pericoloso.

Per certi versi, il ragionamento di Zucchi ricorda le riflessioni derridiane sulla Differanza e sulla Spettralità: la non-innocenza della cultura, il vuoto che nel suo “scavare la parola” la allarga infinitamente, pur rimanendo infinitesimale. Purtroppo, la complessità dell’argomento e dell’argomentazione potrebbe rendere ostica la lettura a un non adetto ai lavori. Ciò nonostante, Zucchi compie un’operazione molto rara (anche tenendo in considerazione il mondo accademico di matrice italiana): ogni volta che la sua analisi identifica un nuovo elemento, che riposiziona o espande i precedenti, Zucchi ripresenta l’obiettivo della sua opera, aggiornandolo e legandolo al prossimo punto d’analisi. Quest’operazione è molto efficace nell’aiutare la leggibilità del testo; ma è apprezzabile perché dimostra un’attenzione verso il pubblico, oltre che umiltà e padronanza della forma saggio. Troppo spesso si incrociano testi brillanti, ma resi – si direbbe volontariamente – più ostici, e chi legge è obbligato a seguire uno stile che, per presentare colti voli pindarici, rischia di risultare – oserei dire – altezzoso.

Non è una questione di agevolare una lettura più pigra e superficiale, bensì, rendersi conto che la scelta di organizzare in questo modo il carico informativo può funzionare come un gatekeeping culturale, dove chi ha una certa preparazione può godere di un certo tipo di cultura. Nel testo si arriva alla domanda di chi è il significato:

“In questa prospettiva la letteratura che implica se stessa – quella in cui la letteratura già scritta funziona come ‘condizione di produzione’– , nei suoi meccanismi interni, non produce innocui esercizi di stile: essa al contrario mette in gioco i modi di appropriazione e i processi di attribuzione e significazione; essa segretamente chiede: ‘di chi è il senso?’– , si tratta, alla lettera, di una prospettiva politica.”

Allo stesso modo, agevolare una lettura anche da chi è meno del settore, significa fornire ad un pubblico più ampio degli strumenti di decostruzione culturale, rispondendo anche, in parte, al sempre presente problema del “a cosa serve la cultura umanistica?” e, più nello specifico, “a cosa serve studiare la letteratura?”, che potrebbe segnalare qualcosa di più complesso di un disinteresse generalizzato. Forse si potrebbe parlare di un vuoto anche qui, dove lo spazio di comunicazione tra chi (in termini capitalistici) produce e chi consuma non viene abitato.

La prima parte del saggio si chiude sul significato dello studiare letteratura applicando il metodo Pierre Menard al suo stesso testo. Il finale tematizza il libro, perché implica se stesso – l’autore del libro è anche il lettore di questo libro, e riposiziona, dopo il suo sforzo intellettuale, la proverbiale bandierina. Con una chiusura aperta indica la risposta necessaria a una domanda che forse era già stata risposta, ma ora va riconsiderata, rimessa in discussione, perché il vuoto si è allargato e ha riposizionato molti elementi, se non tutti, essendo interconnessi testualmente e non. Così facendo, Zucchi suggerisce che il punto non si esaurirà mai completamente, e che forse dovremmo addirittura essere riconoscenti per questo. Una condizione simile ci spinge – a ogni parte del settore interessato – a riposizionarci continuamente, rivedere i nostri assunti e capire dove poter migliorare (e dove, invece, chiedere al resto della filiera che qualcosa cambi).

L’obiettivo di questo saggio è molto alto e ampio, sicuramente frutto di uno studio attento e prolungato. Si potrebbe dire che molti spiriti lo animino, pur rimanendo uno. O ancora, citando l’autore: “Chi scrive, pur giurando fedeltà a una e una sola di queste posizioni, ha cercato in questo libro di farsi carico di ognuna di esse.” Riunendo, in una singola frase, tutto il concetto di rischio, arte e abitare il vuoto.

Buona lettura.

Ogni citazione è presa o contenuta nel saggio di Alfredo Zucchi.

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