Sul romanzo “Tutto finisce con me” di Gabriele Esposito

di

Ciro Piccolo

1.

Uscito il 14 marzo per i tipi di Wojtek, dalla sinossi in seconda di copertina del romanzo Tutto finisce con me di Gabriele Esposito leggiamo:

Un giovane uomo, in carriera e maniaco del controllo, al risveglio trova il mondo così com’era la sera prima. Gli esseri umani, però, sono scomparsi.
Trascorre la prima giornata di solitudine dapprima con angoscia, poi in una specie di esaltazione fino al mattino seguente, quando le persone tornano al loro posto. 
L’uomo alterna momenti di perfetta solitudine, nei quali comincia a sentirsi a suo agio, alle solite compagnie – moglie, madre, colleghi – che lo comprimono tra sogni di gloria feroci e competizioni muscolari col suo corpo e la realtà. 
Fino a che i due mondi tendono a sovrapporsi: nel mondo-con-gli-altri arrivano la morte, il tradimenti, il divorzio, nel mondo-senza-gli-altri spuntano presenze rarefatte (il cane, il mendicante, la ragazza Instagram).
All’uomo resta la scelta del luogo in cui collocarsi, della forma di solitudine più coerente con un mondo tanto iperconnesso quanto spietatamente isolato.

Ora, l’icasticità di un titolo come Tutto finisce con me, in cui sembra volersi definire la realtà in maniera egoriferita, potrebbe indurre a pensare ad un romanzo psicopatologico, in cui ciò che viene rappresentato sia morbosamente da ricondurre al lirismo del personaggio che narra, in senso tutto narcisistico o, al più, egocentrico. Un titolo perciò contraddittorio, si potrebbe dire, rispetto a quello che si schiude nel testo di Esposito, giacché sono invero la pura oggettività e il calcolo matematico a fare da acido nitrico lirico in cui si dissolve tutta la realtà narrata; sono esse le uniche lenti di cui dispone il protagonista – un burocrate economista – affinché riesca a interpretare i mutamenti d’eccezione dell’ecosistema accennati dalla sinossi (quel mondo-senza-gli-altri in cui egli si trova gettato ricorsivamente).
Perciò in realtà, più che di contraddizione tra il titolo e la sua opera, parleremo più correttamente di paradosso: quello che si costruisce tra il calcolo reificante per rendersi senza stupore intelligibile la realtà sconfinata e un lirismo spietato, pervasivo. Esso è un paradosso perché i due elementi apparentemente opposti non solo sussistono rivendicando ognuno uno stesso grado di esistenza, ma si combinano anche in un insieme sorprendente, giacché questa interazione tra i due poli fa di tutto il romanzo un complesso infinitesimale di scene causalmente e cronologicamente susseguentisi, una sequenza di fotogrammi  tra i quali si inseriscono le riflessioni deduttive del personaggio narrante che sembra adeguare la velocità del proprio pensiero a quella delle scene della realtà, quella di ciò che avviene a mondo aperto.
È tra queste due dimensioni che si può individuare l’incongruenza su cui si costruisce l’idea del romanzo, quell’ossimorica chiosa della sinossi che ci parla di “un mondo tanto iperconnesso quanto spietatamente isolato” e che in altri termini potremmo leggere anche come la discordanza tra una realtà esigente e il bisogno di una narrazione autentica che parli del sé e del sé dell’altro. Questa è a tutti gli effetti una frattura scomposta interna al mondo odierno, neoliberale e  capitalista, di cui l’autore vuole mettere in luce proprio l’ambivalenza tra un sistema enorme ed eccellentemente performante che assorbe e riassorbe plasticamente la totalità, e l’assenza di agentività del singolo individuo in quanto individuo che si pasce dell’illusione contraria tra sogni di gloria lavorativa e perfezionamento fisico corroborati da un modus operandi deduttivo, statistico, calcolante e quindi onnisciente; dunque lo scarto che sussiste tra la smisuratezza della macchina sistemica e l’infimità del soggetto che vi si trova gettato, incapace di accordarsi alla diversità dell’altro. In questo senso allora Tutto finisce con me si configura come un romanzo sintomatico del mondo d’oggi, giacché è quest’ultimo l’elemento comune che definisce quelli che sono i tratti fondamentali dell’opera – solitudine e competizione; il mondo, con o senza persone, è l’elemento stabile e sussistente e va avanti anche nei momenti di solitudine creando quella distanza tra individuo e macchina sistemica che si manifesta nella “paura di rimanere indietro rispetto agli altri” di cui ci parla l’autore in Siamo soli nella nostra “bolla”, mentre il mondo è fuori (13.03.2022, https://www.illibraio.it/news/dautore/soli-nella-bolla-1417880/). Il sistema è quindi la conditio sine qua non dell’intera vicenda narrativa e questo gli conferisce peraltro il suo personale e assoluto carattere di necessità.
Si aggiunga: con esso, ciò che nel romanzo cerca di essere stabile è il soggetto narrante. Su questo soggetto grava però il limite biologico-temporale di un’esistenza; ma anche e soprattutto grava la distanza abnorme che gli si apre davanti quand’egli si rapporta all’alterità del suo stesso tipo, ovvero quella umana che, ormai riferita unicamente al mondo strutturato economicamente, è finita per essere cosa tra le cose: è nelle linee di comunicazione con l’altro-uomo – e non con l’altro-oggetto, di cui l’individuo è finito per essere simile – che si installa uno spazio irriducibile. Il romanzo è attraversato da una mercificazione sistemica che pone sullo stesso livello orizzontale tutte le cose dell’ecosistema a discapito del contatto autentico tra esseri umani. È proprio qui che si situa l’aspetto drammatico della vicenda: non esistono più differenze di livelli giacché è il mondo – particolarmente sotto l’aspetto produttivo – l’unico contesto, la totalità fatta di cose valutabili universalmente con la logica e tutte facilmente ascrivibili ad un intelletto che non discrimina ma è teso al raggiungimento dell’obiettivo: non è un caso allora se s’intravede la differenza dolorosa con l’alterità solo nel mondo-senza-gli-altri quando qualche presenza rarefatta pur compare, quando vediamo il Giova che, sotto le sevizie del protagonista, si illumina di umano terrore dopo essere stato descritto fino ad allora solamente nei termini di una competizione lavorativa. Legato il Giova assume un ruolo autentico nella scena:

L’uomo non può rispondere: suda. Non l’ho mai visto sudare prima d’ora, nemmeno quando doveva sillabare il PowerPoint davanti a decine di persone, nemmeno quando si rendeva conto che le sue previsioni erano ridicole e doveva comunque difendere quei numeri, nemmeno prima di dire sì alla Grazia, nemmeno quando ha accettato il mio invito a cena pur sapendo che sarebbe stata una resa dei conti e che avrei vinto io. Suda, il Giova, alla vista del coltello dell’arrosto.

Perciò: checché si dica dello stato di eccezione dell’improvviso mondo-senza-gli-altri – e molto se ne potrebbe dire, dal momento che potrebbe essere interpretato tanto realistica psicosi del protagonista quanto posticcio strumento diegetico – esso è di fatto manifestazione sintomatica del mondo neoliberale ancor prima che del protagonista. Quest’ultimo infatti non gode nemmeno del privilegio di una malattia che sia sua propria, giacché essa non gli è già connaturata; piuttosto la subisce dall’alto in quanto egli è parte di una totalità già malata. Perciò solo in questo senso si può lecitamente parlare di romanzo psicopatologico: in seconda battuta, giacché il morbo è umano solo di rimando, in quanto disfunzione della macchina sistemica che l’uomo ha creato e in cui l’uomo vive. La necessità del personaggio perciò, una necessità malgrado tutto ancora impellente, è infatti deformata: essa sembra il trampolino di lancio per un tuffo in qualcosa di pervasivo e meno netto, i cui limiti non sembrano decisi dalla realtà e dal ragionamento deduttivo ma da essi traggono spunto per ampliarsi e corroborare un’ideazione che sembra paranoica e subdola.  Risucchiato e condizionato dalla macchina sistemica finanche nell’incedere del proprio pensiero, che per questo diventa appunto calcolante, scientifico, quasi onnisciente, per il protagonista sembra impossibile costruire una narrazione interiore coerente, lineare: la paranoia è dunque la disfunzione che si crea proprio nel compromesso tra uno stato di necessità fisiologico – quello diegetico-interiore – e l’onnipotenza vorticosa del sistema con la sua necessità di tipo sovrastrutturato. In questo senso allora il titolo Tutto finisce con me è una rivendicazione della propria agentività in un mondo che, per darle spazio, ha finito per esigere la solitudine e l’indifferenza; a fine romanzo, dialogando col vecchio del mondo-senza-gli-altri:

Penso al mio alter ego, che rimarrà con la gente. Andrà in prigione, esito. Lui scuote la testa, forse, ma tu puoi scegliere di non saperlo. Come? gli chiedo. Non guardare il mondo, mi dice.

2.

Viene in aiuto, nell’analisi dello schema a tre fra competizione, solitudine e mondo neoliberale e nella comprensione di come questi tre elementi agiscano tra di loro, lo scritto gà citato dell’autore per Il Libraio.it alla vigilia dell’uscita del romanzo, breve articolo in cui egli parla di “una società depressa fatta di persone sole che sanno tutto, regolata dalla perfezione e da conoscenze scientifiche avanzate e a portata di tutti” (Siamo soli nella nostra “bolla”…). Qui Esposito sembra partire dal social networking per una trasversale “riflessione sulla solitudine contemporanea” (Siamo soli nella nostra “bolla”…) come si legge nell’occhiello:

Apprendo mentre scrivo, da una ricerca veloce, che le persone passano in media dalle quattro alle sei ore al giorno osservando lo schermo del cellulare, il più delle volte rispondendo a notifiche generate da applicazioni varie o studiando dettagliatamente e continuamente quello che succede nel mondo e nella propria cosiddetta “bolla social”.
Un mondo sempre più strano e sconosciuto e una bolla molto spesso irrilevante, fatta di commenti più o meno interessanti e foto che documentano la vita perfetta – e cioè priva di sconfitte e umiliazioni – degli altri.
Una perfezione altrui che genera subito il bisogno di perfezione personale da documentare nei dettagli, con lo scopo di generare notifiche sotto forma di apprezzamenti virtuali (like, cuori) che a loro volta producono dopamina nel cervello, la droga naturale che gratifica all’istante e di cui tutti siamo ingordi. È il bisogno di attenzione da parte del mondo, un mondo di relazioni virtuali cui siamo tutti molto attenti.

È importante ribadire questo aspetto del testo con cui Gabriele Esposito ha voluto annunciare l’uscita del suo romanzo, se non altro perché quello che qui sembra essere il punto di partenza causale di un mondo solingo – ribaltamento diegetico potente di ciò che è propriamente la solitudine individuale, come emerge dallo stesso articolo – e cioè il social networking, è invero presente solo marginalmente in Tutto finisce con me. Nel romanzo infatti la “vita perfetta” tanto agognata sembra più riferirsi alla social climbing sfrenata del protagonista, capace di tutto pur di raggiungere un upgrade lavorativo nell’azienda di cui è dipendente: la “bolla social” di cui Esposito parla nell’articolo resta ai margini, non ha funzione diegetica alcuna né ne ha una psicologica sul personaggio. Anzi essa assume un ruolo decisivo a fine romanzo nella risoluzione dell’uomo:

Esco, faccio una passeggiata. Scegliere di non sapere? Forse, un giorno, quando sarò anche io il vecchio mendicante dell’angolo della piazza vuota. Ora no, la solitudine assoluta mi va bene ma la fame di conoscenza è ancora grande, grazie al telefono la mia sarà una solitudine iperconnessa, saprò tutto di tutti e farò un po’ come mi pare: sembra il paradiso.

Anche attraverso questa lettura della realtà, la quale individua l’ordine sociale digitale come filtro d’analisi, si potrebbe leggere il titolo dell’opera anche come qualcosa di psicopatologico: la ricerca estenuante di gratificazione e attenzione sarebbe, in quest’ottica, la causa scatenante di una solitudine diffusa che investe persino “persone in apparenza di successo” (Siamo soli nella nostra “bolla”…). Questa lente però manca nel romanzo, il quale si muove su questi aspetti maggiormente su altri binari, mentre il social networking assume palesemente una posizione conciliante (“sembra il paradiso”). Più coerentemente infatti la “bolla social” resta nella narrazione un simulacro di ciò che avviene nella realtà e a questa è soggiogata, giacché riflette la desolazione e l’abbandono del mondo-senza-gli-altri nonostante gli altri, pur lontani fisicamente, ci siano, esprimendo di fatto in maniera meno problematica l’aspetto sintomatico di una disfunzione della realtà che proviene quindi da cause più lontane. Perciò quando il protagonista del romanzo, dopo aver deciso di riprendere il mondo-senza-gli-altri con lo smartphone, rivede il filmato il giorno dopo nel mondo-con-gli-altri, il dispositivo fa da oracolo della verità, è vero, ma i social network sembrano restare impassibili a quel materiale. Egli infatti lo condividerà pubblicamente ma la “bolla social” ne resterà perlopiù indifferente:

Mi sdraio sul letto e tiro fuori il telefono, il polso trema – non è la cisti che mi tormenta da mesi, quella fa male e basta – è l’attimo che precede la verità, e sì, i video che ho fatto ci sono tutti. […]
Non sono qui per pensare, apro l’app del social network e carico tutto rozzamente, senza commenti, senza taggare nessuno […] tiro fuori il telefono e sì, c’è una notifica, la leggo, nonostante il trapezio mi faccia ogni giorno più male: la testa inclinata pesa. Fico, che app hai usato per far sparire la gente, la voglio anch’io, scrive mio cugino, che non capisce niente. Subito arriva qualcuno cui piace il commento, anzi due qualcuno. Nessuno però mette un bel “mi piace” esplicito ai miei video. Scrollo i contenuti del social network, porcate, non ne apro nemmeno uno, non ho tempo di valutare le cose degli altri, ne commento ancora meno […].

La miccia diegetica è infatti un’altra e sta nella difformità dell’andamento usuale delle cose, il fatto che quest’uomo si svegli in un mondo-senza-gli-altri; la miccia diegetica proviene, in breve, nella disfunzione dell’ecosistema sociale. In questo aspetto ciò che c’è di più interessante e funzionale dell’analisi di Esposito, che nell’articolo citato dice di aver “provato a interpretare il mondo che stiamo vivendo in un modo che ne potesse esplicitare il più possibile le caratteristiche strane e inquietanti”, è l’apparente assenza di tragico nell’assurdità di una realtà che improvvisamente si scopre sgombra del materiale umano. Le cose presenti nel testo infatti sono dette o appaiono sempre con una esattezza di cui non si vede più neanche lo sforzo; ne traspare solo il rinculo per così dire stratificato le cui manifestazioni contengono già la nonchalance che le fa sembrare un’evidenza non problematica bensì fisiologica e, in quanto fisiologica, necessaria e perciò difficile se non impossibile da rifuggire. La realtà calcolata in termini infinitesimali dell’economista, una realtà fatta soprattutto di relationship e previsione, diventa irrazionale solo rispetto all’usualità delle cose rovesciandosi nell’assoluto vuoto di scena del mondo-senza-l’altro: ma ciò non costituisce, come dicevamo, istanza davvero problematica, giacché proprio il calcolo incessante, che è tra le cause scatenanti dello stato d’eccezione, tra le cause di una solitudine spietata, pone il personaggio lontano anni-luce da considerazioni sostanzialmente tragiche, rendendo apparentemente razionale anche l’assurdità dell’accaduto. Come se fosse già abituato alla solitudine, il personaggio impiega davvero poco tempo ad adattarsi al mondo sgombro in cui egli si trova ricorsivamente: anzi egli lo sceglie, nel finale, con una deliberazione che esprime il bisogno che scalcia di allontanarsi da una connessione che lo esulcera. La soluzione conciliante sembra essere perciò questa: in un paradossale stato di partecipazione spettatoriale, di attività passiva, in breve nell’obbligo di plasmare la realtà nell’unico modo possibile – chiaramente quello produttivo – il personaggio rivendica un bisogno meno sovrastrutturato, quello diegetico, senza peraltro allontanarsi in maniera assoluta dall’altro (egli infatti decide, attraverso il telefono, la via di una “solitudine iperconnessa”), giacché questo bisogno che egli ha rivendicato è atto proprio a creare lo scompenso che manca nel piattume del tutto quantificato: esso genera il delay necessario affinché si possa parlare propriamente di alterità.

Sull’assenza di tragicità si può peraltro rinvenire che ciò che non è naturale – l’inverosimiglianza di un mondo che alternativamente si svuota e torna a riempirsi – ha luogo principalmente nel silenzio, le transizioni da un ecosistema all’altro hanno tutte luogo in uno spazio e in un tempo non narrati e per questo anche esse possono dirsi aproblematiche. Perciò è asettico l’atteggiamento del protagonista, il modo in cui questo prende atto della mutazione della realtà circostante in cui è gettato. È in questo modo di muoversi nel mondo che si colloca la tranquillità con cui l’uomo si masturba nello studio della sua superiore o scrive una fattura falsa per incassare del denaro con l’inganno dalla lavandaia, gesti questi di cui pure appare la riprovazione nel mondo-con-gli-altri. L’uomo si muove nel mondo-senza-gli-altri constatando la situazione per deduzioni sillogistiche. È un occhio logico e matematizzante che gli permette di affaccendarsi senza paura perché lo pone a distanze siderali dall’autenticità ancestrale, dall’animalità umana che però si manifesta proprio nella difformità innaturale come estremo e disperato tentativo di riemergere. Oltre a ciò, la paura e lo sgomento sono scongiurati con l’alprazolam e in questo senso può essere considerato reazione fisiologica dello stato in cui si trova scaraventato il personaggio  il sudore che gli scende dalla fronte.

C’è di più: l’assurdità di un ecosistema sgombro di persone spazza via di fatto tutto ciò che nella normalità genera grattacapi o preoccupazioni, esso sembra essere quasi una dimensione rassicurante. Questo perché il mondo senza l’alterità è un mondo che non conosce necessità di tipo sovrastrutturato: il clochard che egli incontrerà nel mondo-senza-gli-altri non ha bisogno di lavorare, di pensare alla propria sopravvivenza. Quando i due si incammineranno lungo le sponde del fiume verso il mare, alla foce, l’anziano sciatto gli dirà, a lui che si chiede “È vero che ne abbiamo, ma ormai è notte, che senso ha andare al mare?”:

Ci sono molte cose che non hanno senso, dice, eppure le facciamo lo stesso, per lunghe ore, ogni giorno. Le fanno tutti. Io non le faccio più da molto tempo, non combatto più per la mia futile sopravvivenza quotidiana, ed eccomi qui, a vagabondare per sempre. È meglio così.

Al contrario il mondo-con-l’altro, quello iperconesso, è mosso dal diktat iussivo, richiede «il giusto compromesso tra una deadline imperativa e una precisione doverosa». È una dimensione di necessità, chiaramente necessità produttiva, che nel contrasto col mondo-senza-l’altro mostra tutto il suo nocivo tratto sovrastrutturale. Qui la realtà è una fitta rete di calcolo e gestione e lo sfondo ancestrale si manifesta solo e soltanto nell’atmosfera di sogno o nel delirio paranoide dell’uomo nei confronti del Giova: lì infatti si condensano, indebolendosi nella loro integrità, la sessualità e la competizione, confondendosi in un rapporto ambivalente di causalità per cui non è mai ben chiaro se i vagheggiamenti di una mènage a trois siano frutto dalla competizione lavorativa col Giova o se, secondo un determinismo opposto, quest’ultima sia solo l’aspetto sintomatico più superficiale di una voluttà ben più primitiva che è quella che porta il protagonista a sogni promiscui che non sembrano accordarsi con la moralità del mondo-con-gli-altri. È qui che si legge qualcosa come un deragliamento da parte sua: in una sintassi d’azione esatta e non fraintendibile e soprattutto tesa alla massima resa ed efficienza, ricorsivamente i momenti paranoidi e il mondo solingo parlano di qualcosa di non intelligibile, lasciano che esso emerga, impossibile da accatastare nella mappa sistematica e già compiuta della realtà. Infatti, sebbene l’intelletto calcolante del protagonista renda in qualche modo assimilabili le due circostanze, la loro inverosimiglianza è tanto evidente da farle risultare – e paranoia che mondo solingo – una manifestazione morbosa della totalità in cui si è gettati.

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