Su “Fermate la produzione” di Giovanni Peli

di

Ginevra Amadio

È un testo agile e urticante quello che Giovanni Peli firma per Calibano Editore, affidando alla forma diario le riflessioni, gli eccessi, le utopie fuori norma di un “rivoluzionario arboricolo”. L’opera, che risente dell’humus poetico dell’autore, trae dalla musicalità, dai richiami tra figure di suono e senso, il carattere vibrante – persino sanguigno – che ne innerva le pagine. Peli decide di ragionare in solitudine, scrivendo in punta di penna un atto d’accusa contro la civiltà industriale già proiettata oltre il nostro tempo, in un presente in cui si è «attaccati con le cannule alla macchina», anestetizzati al piacere, al pensiero, agli istinti più basilari. Quello immaginato dall’autore è infatti un mondo dis-umano, che non conserva traccia dei rapporti sociali e disegna un panorama sospeso, di una carnalità virtuale, laddove tutto è iperconnesso, controllato. 

La materia viva del racconto è già tutta qui. Bastano pochi passaggi per trovarne il segno distintivo, come la voce che progetta, ricorda, immagina rapsodicamente una sovversione “arboricola”. Si vedano alcuni prelievi:

Le mie penne remiganti, la mia foga inviperita. Si vola, non si vola, si va oltre la propria natura, ma anche no. 

Noi disveleremo l’angoscioso turbinio di droghe e sogni ad occhi aperti, siamo noi che daremo specchi in mano a questi botoli di grasso rincoglioniti e faremo loro assaporare l’odore del sangue, il profumo dei boschi, la fragranza del coito espletato tra i faggi, i castagni e le nuove incisioni rupestri, le incisioni che raccontano la nostra rivoluzione e l’onore degli uomini, delle volpi, dei procioni, delle manguste e dei cobra. 

Si materializzi col proprio corpo la svolta epocale. Si persegua l’obiettivo: fermare la produzione. 

Fermate la produzione! Mi lasciano libero… credono che sia innocuo. 

Un amalgama dissacrante di ironia e tragicità, sintomo dell’intelligenza di un autore capace di recuperare i moduli della distopia per guardare, con acume, alla catastrofe incombente, mostrando al contempo una via alternativa – impraticabile e per questo incisiva, rivelatrice. 

Quello che il protagonista di questa storia vuole è infatti il ritorno a uno stato primigenio, a una commistione tra regno animale e vegetale che escluda, necessariamente, il predominio dell’uomo sull’ambiente. Lupi, volpi, manguste: questi gli spiriti guida del rivoluzionario intrepido, uscito di prigione dopo «aver sabotato le fabbriche», disposto a ogni atto estremo per ricondurre l’umanità «nei boschi», per indurla a «seguire le metamorfosi delle piante, scoprire la sua recentissima evoluzione, perché gli animali sono più vivi della maggior parte degli esseri umani». 

Nell’era pandemica sono gli «ufficiali sanitari» i tutori dell’ordine, promotori e custodi di una morte in vita, favorita casa per casa con l’accertamento della connessione che è poi dominio sui corpi, privazione di qualsiasi spazio di resistenza. Peli è attento ai segnali fisici, indugia sui particolari estetici seguendo un metodo semiologico-visivo che ricorda quello di Pasolini, la cui lezione si avverte sin dalla struttura del testo, frammentato e disorganico, a indicare come solo la diffrazione possa far cogliere l’invisibile.

Così la creatura di Peli è al centro di una continua performance, getta il corpo nella lotta immaginando un’apocalisse generativa, un’esplosione che ricorda quella dell’appunto più visionario di Petrolio, quando il protagonista vaga in un mondo sprofondato all’indietro, una waste land che ha il sapore di una nuova preistoria, in cui egli è il solo a riattivare il ciclo vitale.

L’amore – un sentimento che appare congelato – torna in quest’opera motore d’azione, un antico, “insulso” sentimento che ha il potere di sbrigliare le coscienze, di rompere letteralmente le catene. Anna, indimenticata passione dell’io narrante, è ridotta a una larva – peggio, a un «ippopotamo» flaccido – attaccata alle macchine «come quasi tutta la gente del mondo» – soggetto passivo eppure capace di riflessioni, di estreme richieste, capace di muovere il compagno a più intensi atti di coraggio perché sabotare è vivere. È l’unica via possibile. 

In questo non-romanzo a frammenti, in cui compaiono esseri tra l’immondo e il fiabesco (memorabile la figura della donna del mare) Peli unisce sogno e realtà, passato e futuro e attinge alla visionarietà dei fatti per mostrare – in forma grottesca, esasperata – i termini della mutazione in corso, il lento disgregarsi di un sistema livellante. 

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