Dovunque acqua sia voce (Edizioni degli animali, Milano 2022) di Domenico Brancale dimostra come la scrittura di quest’ultimo sappia superare i confini tradizionali tra i generi (pur conservando un inconfondibile ritmo e una peculiare sprezzatura – e si rileggano a proposito della sprezzatura proprio le relative, magistrali pagine di Cristina Campo, autrice di riferimento per Domenico come è noto).
Dovunque acqua sia voce raccoglie (meglio: accoglie) e riscrive molti testi più o meno recenti, molti percorsi di scrittura e di pensiero sempre caratterizzati da quella tensione intellettuale e psichica mai pacificata, sempre sull’orlo del precipizio, sempre interrogante che vivifica tutti i libri di Domenico Brancale dal momento che l’acqua richiama direttamente l’interrogazione intorno all’origine, agli stati della pre-nascita per inoltrarsi nello stare-nel-mondo sempre condizionato (talvolta dolorante) a causa di questa separazione originaria.
«Come spiegare il mal d’acqua, quella nostalgia che inonda il sangue fin dal giorno in cui siamo nati al mondo?
Questo quaderno di scrittura è stato a lungo sott’acqua. L’inchiostro ha trattenuto il respiro. A partire dalla parola acqua le frasi hanno assunto una forma diversa. Ciò che mi ero prefisso non è stato raggiunto. Le parole non hanno mai fine. Qualche cosa galleggia. Qualche cosa affonda. Posso riconoscere la soglia della voce.
Ce n’est pas fini la bête» (p. 7).
Com’è peculiare della scrittura di Domenico Brancale, anche qui l’io autoriale va incontro al fallimento e dichiara le sue sconfitte, ma è proprio nel tour de force di slanci e sconfitte, nell’attraversamento rischioso delle contraddizioni, attuando una sorta di scrittura per viam negationis che il libro si costituisce nelle sue diverse parti, scegliendo di volta in volta il ritmo del dire (mai pacificato, mai acquietato) e facendosi non poesia, non prosa, non diario, non memoria, ma scrittura – e quest’ultimo termine, (che è un cosmo, anzi più cosmi che collidono e si ricostituiscono per tornare a collidere), quest’estremo termine qui lo intendo come un’unità reale e innegabile, contemporaneamente felice e dolorante, sempre impietosa con sé stessa, di mente e di corpo, di organi sangue funzioni corporali e desiderio memoria immaginazione ritmo di pensiero e di parola.
«Negli ultimi anni mi sono chiesto più volte cosa mi spingesse a scrivere, senza potermi dare veramente una risposta precisa. In questa domanda ho sempre avvertito goffaggine e debolezza. E mi sono reso conto che la mancanza di scopi e la rinuncia a uno scopo qualsiasi fossero la mia vera salvezza. In un certo senso non si può costringere se stessi a fare un sogno, come a scrivere poesia. Ogni poesia è la celebrazione di un segreto. Ci sono cose più grandi di noi che a volte tacciamo per paura di essere ridicoli. Tali cose rendono lo spirito autentico. Chi ha perso la gioia ingenua della banalità non ha più nulla da assaporare nella vita» (pp. 26 e 27).
Con Brancale «Parliamo con una voce che non conosciamo, che non è mai scritta. Parliamo la voce di chi ci ascolta» (p. 40) e infatti anche questo libro, come già tutti i suoi precedenti, sbaraglia le prospettive consuete obbligando la scrittura per sentieri irti (e ricchi) di paradossi e di sovvertimenti sia lessicali che concettuali. E non si dimentichi mai che, pur approdando alla pagina scritta, l’arte di Domenico appartiene totalmente alla sfera del corpo e dell’oralità (infatti «Scrivere è vedere il tuo corpo» p. 48), è qualcosa che abita il rovescio del reale, una corrente psichica e verbale che capovolge la percezione abituale del mondo, è il Lenz di Büchner e di Celan che cammina sulle mani, a testa in giù, avendo cioè la terra sulla testa e il cielo sotto i piedi. E sempre la scrittura brancaliana fa esperienza di quest’abisso di azzurro o di nuvole spalancato sotto i piedi, della prossimità delle argille e dei sassi alla testa, sempre la lingua italiana della comunicazione corrente viene rovesciata, spalancata, ne viene mostrata la fodera interna, le cuciture in precedenza invisibili e che sono quello che, in realtà, aderisce al corpo nudo della lingua stessa; leggere Brancale è, anche questa volta, essere costretti a dimenticare la lingua corrente e la sua scialba sintassi per vederne (e apprenderne) il rovescio, sempre sorprendente e spiazzante, poetico proprio perché esso ποιεῖ – fa, crea – mondi verbali e concettuali inattesi e non per ricerca artificiosa dell’originalità, ma per necessità espressiva e concettuale interna, cioè irrinunciabile.
Nomi molto cari all’autore si addensano su queste pagine (quello di Rubina Giorgi, quello di John Giorno, di Castor Seibel, quelli dei poeti cui Domenico da sempre ritorna), figure a lui altrettanto care (quella dell’asino lucano, per esempio, già protagonista di Scannaciucce e di più di una performance dal vivo) e il libro si stratifica per sequenze che hanno nell’acqua il loro elemento unificante: l’acqua elemento vitale, l’acqua elemento navigabile, l’acqua- liquido amniotico, l’acqua legata anche alla malattia. Il “mal d’acqua”, titolo di un libricino che poi, trasformato, è confluito in Dovunque acqua sia voce, è quello di una sete inestinguibile del corpo e dello spirito, è, anche, segno di una patologia del corpo che sempre, nella scrittura di Brancale, si profila come condanna e pure come grazia, nel senso che la malattia è certamente sofferenza, è temuta, essa tormenta, ma, nel medesimo tempo, apre nuovi orizzonti al sentire e al pensare, ribalta le prospettive dell’esistere dando a quest’ultimo significati inattesi e densi di valore sia intellettuale che psicologico. E l’acqua, che in alcune pagine del libro diviene addirittura immagine grazie ai meravigliosi acquerelli di Miquel Barceló, è un azzurro attraversamento della, oppure un azzurro ondeggiare attorno alla scrittura – non è un caso che uno degli acquerelli rappresenti la prua di una nave o di una barca su cui è dipinto un occhio, antichissimo uso mediterraneo che, all’interno di questo libro, mi sembra sì, senz’altro ribadire il legame dell’artista e del poeta con le rispettive terre d’origine, ma anche rendere visibile una “navigazione” nel gran mare dell’esistere, del sentire e del pensare che si fa scrittura, ritmo del dire. Declinata in moltissimi passaggi è infatti l’idea dell’acqua quale liquido amniotico e quale elemento legato alla sete, sempre vitale, quindi, la cui mancanza o presenza ritma l’esistere e la scrittura stessa: «Hai sete e non è poco!» (p. 77).
Similmente a Controre (Effigie Edizioni, Milano 2013) anche Dovunque acqua sia voce è opera capace di situarsi all’intersezione dei generi (poesia in versi, aforisma, memoria, prosa ritmica), ché Domenico Brancale segue percorsi lungo i quali è il corpo che scrive (il che significa il corpo che sente, pensa, soffre, gode) a decidere il farsi della pagina – la voce del titolo dice infatti di una coincidenza tra l’elemento acqueo e l’elemento verbale se, ribadisco, l’acqua è da considerarsi quale incessante movimento e divenire, dialettica del positivo e del negativo, della salute e della malattia, del buio e del luminoso.
Proprio a proposito della luce Domenico scrive: «La cosa che mi è più cara al mondo è la luce. La luce di Aliano che penetra le argille. La luce del mare di Salerno e quella delle albe a Venezia. Le nature morte di Morandi. Il silenzio che si accende nella stanza di via Fondazza. La luce di cenere di Parmiggiani. La mano di chi trema nella carne. Nessun pensiero può fermarla. Nessuno spegnerla» (p. 69). In questo passaggio si riconoscono tutti gli elementi essenziali del libro (e non solo di questo): luce, appunto, acqua, silenzio, cenere, argilla ed è come se Brancale, dalla sua nascita lucana e mediterranea, trattenesse nella scrittura un panteismo naturalistico tradotto in lessico e sintassi, in immagini verbali e inediti sintagmi.
«Dovunque acqua sia voce
quello che sei a partire dalla riva del corpo
la piena dei silenzi dispersi in fondo alla gola
e grida, grida di pietra
nell’attesa
quando si fa greto il tempo della tua memoria» (p. 115).
«Chi scrive tende la mano. Chi legge raccoglie il corpo.
Rianima il proprio morto. Il passato si coniuga al presente.
L’ombra del sale riaffiora dappertutto. A volte sono numeri.
La natura viene a chiudere i conti.
Viene a bruciare il superfluo. A incenerire le grate» (p. 116).
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