Rovina

di

Mi vedeva stare male e diceva a mia madre «lasciala stare, è una bambina». Mi voltavo verso di lui, ricurva, la fronte d’odio, le ginocchia se ne andavano per conto loro, gli saltavo in braccio. «La mamma è cattiva» mugolavo. Prima ancora che mi rintanassi nelle sue braccia, lui le aveva già allargate e si era accovacciato sulle ginocchia. Aspettava con un sorriso rassicurante «Eh oplà» diceva quando mi catturava. Restavo seduta sui suoi avambracci e appoggiavo la faccia sulla guancia ruvida. La barba di aghi mi pizzicava «Mi fa male» gli dicevo. Non mi muovevo di un centimetro. «Ora vado a togliermela» rispondeva lui. Si malediceva per essersene dimenticato. Era sciatto e noncurante. La sua indolenza non era mai stato un limite né per sé, né per il lavoro. Nessuno gli richiedeva una particolare cura dell’aspetto per portare il pane a casa. La odiava solo quando mi ritraeva, quando rappresentava un limite tra di noi. «Ora vado a togliermela». Lo abbracciavo e mi cullava e cullandomi mi cantava i Beatles. «Lasciala stare, è una bambina» lo diceva quando avevo nove anni. Non facevo i compiti, mia madre mi trascinava nella mia stanza. Mi chiudeva dentro e non si decideva a liberarmi se prima non li avevo finiti. Lui arrivava con la chiave di scorta. La teneva nel cassetto dei calzini. Mi liberava, mi prendeva in braccio «Andiamo a prendere un gelato» diceva. La sua faccia ruvida e incolta non mi impediva di calmarmi. Mi richiudeva nella stanza prima delle otto, stando attento a non fare rumore. «Non svegliamo il can che dorme» mi sussurrava all’orecchio. Una volta lei ci scoprì e disse «Tu sarai la rovina di questa bambina». Lui mi prese in braccio e le gridò «Mi scusi signora maestra. Mi dica lei come devo essere un buon padre». Lei continuò a lavare i piatti, a vagare con le braccia nell’acquaio, ad asciugare le pentole, con gli occhi vitrei. «Basterebbe che ti limitassi a fare il padre». Lui cantava i Beatles, mi metteva il pigiama e mentre mi metteva il pigiama mi cullava. «La maestra è cattiva» gli dicevo io all’orecchio. Non rispondeva, restava seduto ai piedi del letto fino a che non mi addormentavo. Qualche volta si sdraiava accanto a me, i suoi piedi grandi fino alla mia pancia, la sua faccia oltre i miei piedi. Mi accarezzava le punte delle unghie, come se le disegnasse e le cancellasse. Poi lo sentivo sgattaiolare fuori dalla stanza quando le tende bordeaux cominciavano a filtrare la luce del sole. Se ne andava piano in cucina. Si sdraiava di nuovo sul divano. Accendeva la tv e guardava il giro d’Italia. 

Mi portava fuori con i suoi amici, al bar, il sabato pomeriggio. Parlavano di calcio e di ciclismo, qualche volta di politica. Pochi commenti che nessuno si sentiva di contraddire; sembrava non avessero gli strumenti per farlo. Chiudevano sempre con «il mondo va a puttane» e tutti annuivano. Mi teneva sulle gambe a fare il trotto per ore, mi guardava, mi toccava le mani e diceva «È la mia copia» mi faceva trottare ancora un po’ «Tutta suo padre». Quando tornavamo a casa ero agitata, sentivo un masso che mi saliva dalla pancia e si fermava all’altezza della gola. «Dove siete stati?» chiedeva appena sentiva aprirsi la porta sul retro. In quella domanda c’era tutto lo sdegno per la coalizione mostruosa che vedeva nascere tra me e lui. Lo sdegno coltivato per non averne preso parte. «Al bar» disse lui. Mi stava sempre un passo avanti, quando parlava con lei. Mi teneva il palmo della mano sullo sterno, mi proteggeva. «Neanche oggi ha fatto i compiti». Due lame al posto degli occhi. Non ero meritevole del suo sguardo. «Domani è domenica. Ci penserà domani». Mi accarezzava i capelli. «Tu sarai la sua rovina» diceva lei. 

«Lasciala stare è una bambina» lo aveva detto anche quando, a quattordici anni, mi aveva visto fumare una canna in camera mia. Loro due discutevano da ore in cucina. Mia madre agitava nelle mani le carte del divorzio e s’imponeva sulla mia custodia. «Lei starà con me. Questa è la sua casa». Lui sobbalzava, come se sotto i piedi gli esplodessero delle mine, ogni volta che lei ripeteva «con me». Aveva gli occhi bianchi, pieni di terrore «Lasciamo scegliere a lei» gridava. 

Lei era irremovibile. Aveva l’aria di chi conosce già l’esito delle cose e non intende perder voce e fiato a discutere. Solo nella quantità di sigarette che fumava stagnava la sua agitazione. Accendeva e spegneva. Spegneva e accendeva. 

«Lei starà con me. Tu sei la sua rovina». 

Diedi una serie di colpi alla parete. Non ne potevo più di sentirli discutere. Volevo una tregua, che mi lasciassero riposare. Lui corse in camera mia «Bravo bravo, vai. Sei il suo schiavo». Aprì la porta e lei ci raggiunse, dopo poco. Sgranò gli occhi. Mi puntò il dito addosso, poi guardò lui. Ansimava. «Guarda cosa hai creato». Si avvicinava lentamente, un passo per volta, i piedi posizionati di traverso, seguivano il senso del parquet. Camminava piano per far durare più a lungo la punizione. «È una viziata. Non ha paura di niente». Lui non fece in tempo a dire «Lasciala stare, è una bambina» che lei mi sferrò un ceffone dritto in faccia. 

Divorziarono. Lui se ne andò. mi scriveva «Ti porterò via». Gli credevo e aspettavo. Non desideravo altro che scappare via da quel posto in cui s’era esaurita l’aria da respirare.

Lo fece una notte. Entrò dal retro con il mazzo di chiavi di scorta. «Sono io» disse a voce bassa. Non voleva spaventarmi. «Cosa ci fai?» «Sono venuto a prenderti». Rimase accovacciato, come se l’avesse abbattuto un colpo della strega. «E dove andiamo?» «Fai una borsa. Porta tutte le cose importanti». Mi alzai dal letto, confusa e frastornata. Avevo paura che mia madre si svegliasse. Non ero entusiasta come pensavo. Avevo immaginato più volte quella fuga, prima che si verificasse davvero e non c’era mai stata alcuna esitazione. Neanche una piccolissima, profonda parte di me ne aveva mai dubitato. Volevo scappare con mio padre. Mi feci forza e accantonai l’agitazione. Preparai la borsa, cercando di rimanere lucida. Uscii di casa, senza togliermi il pigiama e quando mio padre mise in moto, mia madre dormiva ancora profondamente. 

Mi tenne la mano per tutto il viaggio, mi sfiorava le falangi delle dita, per disegnarle e cancellare. Mise i Beatles e cantava e cantando mi stringeva. «Sei una bambina, la mia bambina». Fuori faceva freddo, i tergicristalli si muovevano lentamente sui vetri appannati. Svelavano la strada e la cancellavano. Svelavano il giorno e cancellavano quelli passati. «Dove andiamo?» «Ora lo vedrai» disse, senza rivolgermi lo sguardo. Percorremmo una stradina sterrata. Ci sballottava a destra e a sinistra, facendo tintinnare i mazzi di chiavi riposti nel portaoggetti. Le bottiglie d’acqua ondeggiavano e ondeggiando bagnavano dall’interno le pareti di plastica. Arrivammo prima delle nove. Sarebbe stata una giornata di sole, perché il cielo era sgombro. Portammo le cose dentro, io gli stavo dietro e seguivo il ritmo dei suoi passi. «Di chi è questa casa?» «Nostra» rispose mentre appoggiava dei sacchetti di plastica ai piedi del divano. «Ma non ci sono mai stata». «No, mai» disse dalla cucina. «E da dove salta fuori?» «L’ho costruita per noi». Mi guardai intorno e cercai di capire in che parte del mondo ci trovassimo. La casa non era fredda, sembrava abitata, sembrava che qualcuno ci avesse vissuto fino al giorno prima. «Al piano di sopra c’è la tua stanza». Sollevai lo sguardo e cercai la scala. Guardai negli angoli alti, per controllare crepe e ragnatele. Forse mio padre l’aveva tolta a qualche contadino. Ma mio padre non era quel genere d’uomo. 

La sera preparò degli hamburger e guardammo i Blues Brothers. «Vieni qui» mangiavamo cracker con maionese, il nostro spuntino preferito, io da una parte del divano lui dall’altra «Vieni più vicino». Non c’era rumore. Nessuno fiatava. Fuori dalle finestre la desolazione. Un buio pesto. Non distinguevo il cielo dal suolo, gli alberi dalle case. Ce ne erano pochissime intorno a noi e quelle poche erano lontane. Ogni tanto pensavo a mia madre, mi chiedevo se fosse in pensiero. Doveva essere in pensiero. «Quanto resteremo qui?». Era la scena in cui Jack s’inginocchiava nel tunnel, implorando alla sua baby di risparmiarlo. «Shh» fece col dito e mise in bocca un altro pezzo di cracker. 

«Quando torniamo a casa? Ho la scuola» dissi.

«Staremo bene qui» rispose. Teneva incollato lo sguardo alla tv. «Vieni qui, abbracciami». 

«Ho la scuola» dissi a voce più alta. Schiacciò pausa sul telecomando, un poco di maionese gli colava dalla bocca «Questo è ciò che abbiamo sempre desiderato. Stare noi due da soli». Allargò un braccio. Mi invitava a entrarci, a farmi accudire. Rimasi immobile, ferma inchiodata alla mia parte del divano. «Ho le mie cose a casa. E non so manco dove siamo». 

Rimise il braccio al suo posto «Te l’ho detto. Questa è casa nostra. Ti abituerai e staremo bene». La sua espressione cordiale, il suo tono pacato e la sua voce dolce, ora mi irritavano. 

Fece per cliccare di nuovo play sul telecomando. 

«Dove siamo? Ho detto». 

«A casa». 

«No» Urlai. Deve essere stata la prima volta che alzavo la voce con mio padre. La prima volta che mostravo il mio dissenso, perché lui sgranò gli occhi. «Dico in che regione? In che città? Come si chiama questo posto?» 

Fece un passo verso di me. «Vieni qui».

«Non vengo lì». 

S’irrigidì e fece un passo indietro. «Non ti ho mai vista così. Io e te siamo una squadra» i suoi occhi si erano riempiti di rancore. 

«Voglio chiamare la mamma». 

Si voltò verso di me, in preda a uno scatto d’ira. Sembrava che qualcuno gli avesse tirato un ceffone bello forte, senza alcun preavviso. «Ora basta!» afferrò il telecomando, stringendolo nelle mani doppie. 

«Domani la chiamerai». Schiacciò play. 

Quella notte non dormii. Lui venne a sdraiarsi nel letto accanto a me, solo qualche ora dopo che c’eravamo dati la buonanotte. Ogni tanto mi cercava con la mano e io mi facevo piccola, mi restringevo, mi mettevo sul bordo del materasso, per evitare che mi toccasse. Non facevo che pensare a mia madre. Alla sua preoccupazione. A mia madre. Alla sua preoccupazione. Mi vennero in mente immagini di me bambina nelle sue braccia, che non avevo mai ricordato, che forse non avevo mai vissuto. 

Nei tre giorni successivi, quando chiedevo in prestito il telefono, mi diceva «Tra poco te lo do» oppure «Qui non c’è campo» con la faccia dispiaciuta. Il mio l’avevo perso. Da quando ero arrivata in quella casa non l’avevo più trovato. L’avevo cercato a lungo. Avevo messo mio padre a cercarlo con me, ma niente, nessuna traccia. «Provo a chiamarti» mi aveva detto quando mi aveva vista in panico, ma niente, nessuna traccia. Lui cucinava, era spensierato, sempre spensierato, sembrava non gli mancasse niente. Guardavamo i film «sei la mia bambina» diceva e mi voleva abbracciare, mi voleva stare vicino. Io iniziavo a covare, giorno dopo giorno, una repellenza per la sua pelle, la sua barba e il calore del suo corpo. Cominciavo a notare la pancia grossa e gonfia, le macchie sui vestiti che non puliva, la barba incolta, i denti sporchi, i capelli grassi. «Lasciami stare» gli dicevo con sdegno. Lui si mortificava e si allontanava, ma dopo dieci minuti tornava ad essere amorevole. Mi venivano in mente le cose che gli ripeteva mia madre, con l’arroganza di chi guarda le cose dall’alto. «Fai schifo, vatti a lavare». Ora mi faceva ribrezzo, come aveva fatto ribrezzo a lei. I giorni passavano lenti, lenti, lentissimi. Quando c’è silenzio tutto sembra durare più a lungo. «Come si sta bene qui, vero?» Lui era spensierato e io non facevo che chiedermi come potesse immaginare che non avessi bisogno di sentirla. Non chiedevo di lei esplicitamente, c’era una parte di me, la parte che volevo mostrare a lui, che ancora non accettava del tutto che mia madre mi mancasse, così gli dicevo «Ho la scuola» e lui mi rispondeva «Una vacanza ti farà bene». Sentire la parola vacanza mi tranquillizzò. Sapere che quei giorni avrebbero avuto una scadenza anche per lui mi riportava sulla terra. 

Il quarto giorno mi svegliai in una pozza di sudore, avevo i vestiti fradici. «Voglio andare a casa» gridai, prima ancora di dire buongiorno, prima di scendere le scale nel soggiorno, prima di guardare se ci fosse il sole o se avrebbe piovuto. Nessuna risposta. Andai in cucina e cercai mio padre, «sei qui?» andai in soggiorno e lo cercai, feci lo stesso in camera da letto e in bagno. Mi diressi verso la porta, per andare a controllare se fosse nel patio. In quei giorni, appena mi svegliavo, lo trovavo a scegliere la verdura e a pulirla dalla terra, appena fuori dall’ingresso. Spinsi sulla maniglia e la porta non si apriva. Provai, riprovai, con più forza e più energia. Provai ad uscire dalla portafinestra sul retro, anche quella era chiusa. Guardai le finestre, da nessuna passava la luce. Gli infissi erano tutti sbarrati. Non c’erano chiavi. Mi misi a cercarle, disperata. Spostai gli oggetti sul tavolo, sul divano, dietro la porta, dove c’erano i ganci a cui avevamo appeso le giacche. Mi accasciai sul divano e mi prese una paura tremenda. L’amore di mio padre in un secondo si era trasformato in un cappio alla gola. Risuonavano le parole di mia madre «Tu sarai la rovina di questa bambina» si facevano enormi nella mia testa, diventavano allucinazioni uditive. «Sarai la rovina di questa bambina». Sudavo. Sudavo. 

Sentii roteare le chiavi nella serratura. «Bambina mia» lasciò cadere a terra le buste di plastica che teneva nelle mani, spalancò le braccia e si sedette sulle ginocchia, sicuro che gli sarei saltata in braccio, così come lo avevo abituato negli anni. Sorrideva e aspettava. Mi alzai dal divano, corsi verso di lui. Intravedevo, dietro la sua sagoma, il verde dei boschi e il cielo grigio. «Sarai la sua rovina» mi ripetevo nella mente. «Sarai la sua rovina». Le recinsioni di ferro, alte, ortogonali, solide, di un grigio riflettente. Pensavo al mio cane nel recinto in cui lo facemmo morire, per troppa paura che scappasse via. Corsi verso l’entrata, era ancora lì, l’uomo che avrebbe aspettato sulle ginocchia tutta la vita, con la faccia devota. Lo spinsi all’indietro. Non era in equilibrio, cadde. Presi a correre. Feci la stradina sterrata, i sassi grossi e piccoli s’infilavano nelle pantofole. Il pigiama era troppo leggero e l’aria era umida. «Bambina, torna qui immediatamente» lo disse come se della sua voce si fosse impossessata una belva. «Torna qui, immediatamente». Non mi fermai. «Sarai la sua rovina». Correvo e tossivo. Mi faceva male l’addome. Sentii il motore dell’auto accendersi. Feci delle stradine interne, cercavo le case. 

Sentivo l’auto avvicinarsi, i miei polmoni sputare. Vidi una strada, sembrava una provinciale, una di quelle circondate dal verde, in cui c’è la pianura e l’angoscia. Scavalcai il guardrail e scavalcando vidi mio padre che aveva rallentato e stava scendendo dall’auto. «Torna qui» Urlava. Mi fermai in mezzo alla strada e sbracciai, mi misi a sbracciare con energia. I conducenti mi accecavano con gli abbaglianti e i clacson mi stordivano quando le macchine mi sfrecciavano accanto. Mio padre si avvicinava e accelerava il passo. Si fermò una macchina, era una donna. «C’è un uomo che mi ha rapita» dissi. Mi sorpresi di rivolgermi a mio padre in quel modo. La donna restò in silenzio, per qualche secondo. Era sul chi va là, avrà avuto quarant’anni, forse una famiglia e una figlia. Mi stava studiando, cercava di capire se volessi rapinarla o rubarle l’auto, il portafogli o gli organi. «Non ho niente, non voglio farle niente» Sollevai le braccia, disperata «Ho solo paura e bisogno di aiuto». Disattivò la sicura delle portiere e mi fece salire. Lui scavalcò il guardreil e disse «Sono suo padre». Venne dalla mia parte, mise la mano sulla portiera e non si aprì. «Sono suo padre» gridò disperato, gli occhi pieni d’acqua. «La prego, andiamo via da qui. Voglio solo chiamare mia madre». Cominciò a sbattere le mani sul vetro. «Metta in moto, la prego». Lui occupò la strada. «Non me ne andrò, bambina». «Metta in moto» dissi alla donna. Accese la macchina, lei guardava solo me. Lui rimase immobile davanti al cofano dell’auto. Solo e incompreso. I capelli grassi gli scendevano sul viso. Sciatto e noncurante. Aveva tre anni e io lo stavo abbandonando. Non sapeva cosa farci con tutto quell’amore che sentiva, con quella paura di perdermi che lo minacciava. La donna schiacciò sull’acceleratore e lui si fece da parte, si mise a lato della carreggiata. Non mi staccava gli occhi di dosso, impauriti, adirati, vendicativi. Ci fu un secondo in cui sentii l’impulso di scendere dall’auto e saltargli al collo, sedermi sulle sue gambe e trottare sulle sue ginocchia «È la mia copia. Tutta suo padre», ma pensai a mia madre. Il mostro che era dovuto essere perché l’altro posto era già occupato. Fare il lavoro sporco, la parte più scomoda. Farsi odiare per insegnarmi a camminare, per educarmi. Dire sempre di no, perché i sì se li era già presi tutti lui. «Mi presta il telefono, per favore?» Mi indicò il cruscotto. Lo aprii, digitai il suo numero. 

«Mamma» dissi.  

«Amore mio» rispose. 

«Mamma sto bene. Scusa mamma». 

«Dove sei? Amore mio». 

Le passai la donna al telefono. Dopo qualche ora la vidi scendere da un’auto della polizia, all’uscita di un casello autostradale. Le corsi incontro.

Dipinto: William Congdon, Crocefisso 101 (1974). 

Questo sito utilizza cookie o tecnologie simili solo per finalità tecniche, come specificato nella cookie policy.