“Quando le belve arriveranno” di Alfredo Palomba

di

Anthony Fico

“Il nano dice che a volte le persone lo temono ma in realtà non è lui che temono, è il nano nascosto dentro di loro, un essere simile all’uomo, col volto di scimmia. Quando questo essere viene in superfice, quando qualcosa di estraneo, che gli uomini non riconoscono né possono credere di possedere, affiora, allora hanno paura. Altrimenti, se ne vanno in giro spavaldi, a testa alta, ridicoli. Ecco il mio talento, far emergere in chi mi sta vicino il nano dentro di sé. Io sono per gli altri, senza che se ne accorgano, la loro stessa solitudine.”

L’eroe è morto! come s’intitola un manga ironico. Infatti l’eroe è morto, morto marcio e sepolto, e non solo nei fantasy. I suoi abiti vengono ancora portati in giro per la città dove la massa li fa a brandelli e tutti si azzuffano, si calpestano e si maledicono per avere un pezzettino di eroicità da esporre per poter essere visto. Il termine eroe al giorno d’oggi è stato inflazionato fino a perdere di significato e lo si può annoverare fra quelle parole-ombrello che dicono tutto e niente. Non più il semidio che protegge gli uomini dalle forze del male. Non più l’uomo comune che con coraggio, abilità, astuzia e un po’ di fortuna emerge fra i suoi simili. Non vanno neanche più bene quegli eroi mascherati o in divisa incensati solo per aver fatto il proprio dovere perché ce ne sono tanti e non si possono ricordarli tutti. Non è più tempo di eroi ma di gesti banali spacciati per rivoluzionari e almeno fra gli scrittori c’è ancora qualche reazionario che alza uno specchio sopra la folla mettendola di fronte alla propria follia. Questa volta tocca ad Alfredo Palomba con Quando le belve arriveranno (Wojtek Edizioni, 2022).

“Abito in una stanza minuscola, al primo piano di un palazzo condominiale distante poche centinaia di metri dall’Eurospin, dalla scuola superiore in cui lavoro come docente, dalla merceria cinese dove ho cominciato ad andare fin dal primo giorno in questa cittadina: i luoghi che frequento e raggiungo a piedi. Nel tempo libero me ne sto qui a guardare la TV o YouTube o il soffitto. Imposto quasi sempre il video su muto, le immagini scorrono senza l’inutile orpello dei suoni. Grassi presentatori di giochi a premi in giacca e cravatta, concorrenti emozionati e sudati, il pubblico sugli spalti che applaude quando un segnale luminoso glielo suggerisce, direttori di telegiornale che danno la linea al corrispondente di guerra, l’annuncio silenziato di un bombardamento in una terra remota. I teleimbonitori parlano senza voce, i maghi predicono un futuro insonorizzato, i cartoni animati sono privi di quegli sciocchi suoni squillanti. In questo modo riesco a evocarli e, al contempo, a tenerli lontani. […] Ho sentito uno scricchiolio e la stanza è rimpicciolita di qualche centimetro.”

A fare da specchio rivelatore per una società feroce e caotica che spinge verso l’anonimato, Palomba non poteva che scegliere un personaggio senza volto né nome seguendo altri scrittori partigiani come Poe e Palahniuk. Il romanzo è narrato in prima persona e sembra scritto in forma di diario in cui il protagonista alterna eventi quotidiani e riflessioni sulla sua esistenza e le sue relazioni, e qui si può tracciare un parallelo con L’uomo in bilico di Saul Bellow, ma senza date che possano scandire il tempo dell’azione e dare un ordine. Per tutto il romanzo l’autore non persegue alcuna logica. L’unico riferimento al tempo sono le stagioni che dividono il libro. Tra l’autunno e la primavera, entrambi relativamente brevi, c’è un lungo inverno. L’estate chiude il libro, in tutti i sensi.

“Non ricordo gioie intense, dolori intensi, non ricordo grandi sorprese o attese o desideri o affetti, nemmeno quando ero bambino. Non ho mai conosciuto mio padre, non ho mai amato mia madre e nemmeno la nonna-pianta, con la quale piuttosto condivido una specie di comunanza, per la sua condizione di inerzia. Non ho mai avuto una ragazza o un ragazzo. Il sesso femminile potrebbe eccitarmi, almeno in teoria, ma quasi sempre le altre persone mi ripugnano o mi sono indifferenti. Alle superiori non ho mai mostrato interesse per le ragazze, non prendevo parte a riti di apprezzamento e disprezzo per le loro forme, me ne stavo per conto mio e basta. Mi chiamavano frocio, per questo. Guardavo i miei compagni darsi di gomito quando passava una «fica», una «fregna», una «puttana», una «pietra», ascoltavo le loro battute da camerati. Ogni tanto ho provato a ridere, per fregarli. Li studiavo e tentavo di recitare come loro, di mimetizzarmi, ma non ci cascavano. Avvertivano nell’aria la simulazione, la diversità radicale, la comprensione che avevo della loro debolezza. Annusavo la paura dell’emarginazione e della solitudine che dovevano affrontare gonfiando il petto, chiamando puttana una ragazza, scimmiottando gli adulti per esorcizzarla. Il bisogno di far parte di un gruppo dominante li spingeva a infilarsi maschere tutte uguali, ogni giorno. Si sentivano giudicati e il mio giudizio silenzioso mi rendeva il frocio. Additarmi come il frocio era l’unica soluzione per consentirmi di sopravvivere, sia pure al limitare del branco, la via più facile per derubricarmi dal loro orizzonte di certezze, il modo che avevano di immunizzarsi. Soltanto poche centinaia di anni fa, non avrebbero esitato a farmi a pezzi.”

Il protagonista è un giovane disoccupato che accetta un lavoro precario e lontano dalle sue aspettative come insegnante di sostegno solo per allontanarsi da una famiglia distrutta, ma si trascina il rimorso di un ricordo che viene svelato solo alla fine. È un ragazzo anaffettivo, solitario e cinico che ricorda quegli “uomini superflui” della letteratura russa la cui sola presenza è capace di mandare in crisi tutti gli altri svelandole i bisogni, le paure e la mediocrità. La debolezza che lo circonda è più bestiale che umana e come una spugna egli assorbe la cattiveria del suo piccolo mondo, che diventa via via più claustrofobica, e vi restituisce le sue paranoie. Non fa amicizia e nemmeno l’amore disinteressato di una donna è capace di scalfire la sua corazza fatta di uno stoicismo pessimista e autodistruttivo. Riesce a legare solo con un bambino cinese affetto da microcefalia in cui trova la sua missione e unica ragione di vita: salvare la sua innocenza.

Quando le belve arriveranno può essere considerato un moderno esempio di “romanzo di mobilitazione” che sollecita il lettore a difendersi contro un nemico non più esterno ma dentro e intorno a noi: la barbarie.Scritto nel momento in cui il periodo del “ne usciremo migliori” è stato ampiamente superato, Palomba si chiede perché nel mondo l’odio, l’indifferenza e la violenza prevalgono sempre sull’amore, la solidarietà e la fratellanza. L’antidoto che egli trova alla disperazione del presente potrebbe essere troppo amaro per piacere a tutti (o essere capito) ma di questi tempi è meglio un lupo solitario in più e un capobranco in meno. Di quelli lì ce ne sono già troppi!

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