MY FAVORITE THINGS

di

   (Lo dichiaro subito. L’autore di questo romanzo è il compagno di mia figlia e il padre di mia nipote. E allora, per le regole di un certo galateo, non dovrei parlarne. E infatti sono stato a lungo indeciso se farlo o no. Poi però mi sono detto: perché non dovrei segnalarlo dicendo telegraficamente quello che ne penso a causa di questi rapporti? E poi, alla fine, mi si può criticare se io parlo bene di un libro scadente solo perché è stato scritto da una persona che ha con me un legame di parentela. Ma se il libro è buono, singolare, intenso, profondo, toccante perché non dovrei segnalarlo? Perché dovrei autocastrarmi? Per di più nel nostro mondo culturale dalle strutture mafiose magari dissimulate, dove funzionano i dare e avere, i giri, le clientele… perché dovrebbe essere sconveniente segnalare con convinzione un libro di pregio mettendoci la faccia?)

   Chiusa la parentesi.

   My favorite things (titolo di una canzone di Coltrane) è un romanzo anomalo, intenso, confessionale, arrabbiato, elegiaco, che parla di illusioni perdute, del nostro dopoguerra infinito e dei nostri anni bui, che passa dal comico al tragico, dal trauma allo straniamento, dai deliri alcolici alla malinconia più profonda (le ultime decine di pagine sono commoventi fino allo strazio).

   Ma, per far sentire direttamente la sua voce, ne trascrivo due brani, da cui potrete indovinare la pasta e la stoffa di questo scrittore.

   Primo brano. Coltrane sta eseguendo la canzone che dà il titolo al libro, il 2 dicembre del 1962, al Teatro dell’Arte, a Milano, e questa è l’impressione che fa al protagonista la sua esecuzione:

   “Il sax soprano stava pregando. A un certo punto fu come se Coltrane si fosse gettato a terra, in ginocchio, e avesse cominciato a implorare Dio lanciando grappoli di note multiple, simultanee, sovrapposte, che spiovevano mulinando come shrapnel. Mai uomo nella storia aveva osato inventare una musica così brutale eppure così piena di grazia, che fosse nello stesso tempo esplosione, pianto e inno di lode. Era una canto d’amore e una lotta. Erano l’angoscia e la gioia mescolate insieme, la furia e la tenerezza. Forma e sostanza avvinghiate in combattimento e fusione. (…) Coltrane stava dicendo qualcosa. Diceva: ‘Dio, posa la tua mano sulla mia testa, redimi il dolore, redimi il male, il male che non può essere spiegato, che non può essere redento, ecco, redimi il male irredimibile. Disfa ciò che è stato fatto, ricrea ciò che è stato distrutto.’ Questa vibrazione che esce dalla mia anima e passa attraverso questo tubo metallico è la mia preghiera, sia fatta la tua volontà, liberami dal male, liberaci dal male, salvami, salvaci tutti, infrangi le leggi della fisica, le costanti cosmologiche, deforma la trama dell’universo, falla scoppiare, oltre questo limite non posso andare se non attraverso questa vibrazione che irradia dal mio corpo appesantito, dal mio torace, dai miei polmoni, ecco, Signore, sono un mantice, mi faccio strumento nelle tue mani, attraverso il mio fiato ti offro la nostra imperfezione, tutto mi è impossibile, tu puoi tutto.”

   Secondo brano:

   “Cosa fanno i padri e le madri dei giocattoli rimasti quando la loro figlia se n’è andata senza ritorno? Li lasciano  lì dove si sono arenati, come reperti archeologici allineati nelle teche dei musei? E come fanno, allora, ogni giorno dopo la fine dei giorni, ad aprire la finestra della cucina, a prendere un libro, a spazzare il pavimento, se in ogni singolo angolo e in ogni anfratto i giocattoli morti continuano a restare, muti, spenti, irrigiditi? Li trattano come le statuine dei Lari? Vi si attaccano morbosamente? Li sacralizzano? Li spolverano e li accarezzano? Li venerano come reliquie? Oppure facendosi violenza  li prendono in mano per l’ultima volta e li gettano in scatoloni o sacchi neri? Li regalano a qualche conoscente  che ha bambini ancora vivi? Li portano in cantina per stiparli nel punto più buio, alto e irraggiungibile degli scaffali, dove giaceranno per lunghi anni in silenzio mentre al cimitero la piccola tomba si macchia di grigio per via delle piogge e per la consumazione del tempo, i fiori di plastica imperitura sostituiscono quelli freschi subito gualciti o rubati, le madri e i padri invecchiano, traslocano in altri quartieri o in altre città e infine muoiono? E allora, forse, chiamato dai nuovi proprietari, arriverà qualche robivecchi sovrappeso specializzato in sgomberi a svuotare la cantina, e scavando tra gli strati sedimentari di quelle altre vite ormai dimenticate  raggiungerà lo scatolone o il sacco nero, lo aprirà per rovistare al suo interno e riporterà alla luce le palline scolorite, gli orsetti sdruciti, i dinosauri sdentati, le bambole monche, le macchinine dal semiasse spezzato, tracce residue di giochi senza più nome interrotti per sempre in decenni lontani.” 

Ecco, la temperatura del romanzo è questa. Deciderete voi, alla fine, se ho sbagliato o no a fregarmene del galateo e a segnalarvelo.

Sergio Baratto, My Favorite Things, MInimum Fax, 249 pagine, 18,00 €

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