L’uomo non domina il mondo. I filosofi dovrebbero capirlo

di
I “Paralipomeni della batracomiomachia” di Leopardi | University for  Foreigners of Perugia
Leopardi
Agamben

Le posizioni di alcuni filosofi come Giorgio Agamben e Massimo Cacciari sulla pandemia hanno sconcertato molti.  Io vorrei cercare di capire da dove nascano, e non limitarmi a criticarne le conclusioni. Forse alla radice c’è un’idea astratta di uomo e di libertà, che si riverbera anche sulla concezione del potere. Un’astrazione che viene da lontano, da precedenti semplificazioni e astrazioni.

Quasi due secoli fa, Leopardi scriveva: «Non si conosce perfettamente una verità se non si conoscono perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le altre verità, e con tutto il sistema delle cose. Qual verità conosceranno dunque bene quei filosofi che astraggono assolutamente e perpetuamente da una parte essenzialissima della natura?»  Nel pensiero di Leopardi la «parte essenzialissima della natura» da cui non si può fare astrazione è quel congegno complesso, stritolante e misterioso (poiché non se ne riesce a comprendere il fine) in cui è preso ogni vivente, sia umano che non umano. Ed è da questa che  invece certi filosofi prescindono sistematicamente. In una lettera a Giovan Pietro Vieusseux del 4 marzo 1826, Leopardi distingue due modi di considerare l’uomo: l’«uomo in natura» e «l’uomo in società», e si dice incline più al primo che non al secondo. «Gli uomini – spiega – sono a’ miei occhi quel che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo». I pensatori del suo tempo (e in parte anche del nostro) erano infatti più propensi a considerare l’uomo in società, cioè a osservarlo esclusivamente all’interno delle relazioni che l’uomo stesso ha creato, relazioni per l’appunto sociali, culturali, economiche, di potere. Queste relazioni sono ovviamente molto importanti anche per Leopardi, e le sue continue e illuminanti riflessioni sulle società e sui rapporti tra gli uomini ne sono la prova, ma non esauriscono il tessuto di relazioni in cui è preso l’uomo in quanto vivente. C’è un tessuto più vasto, che ha a che fare con il corpo, con la biologia, gli impulsi, le malattie, le reazioni chimiche, le forze animate e inanimate sia del pianeta (i vulcani, i terremoti, le pestilenze) sia del cosmo. La sua è evidentemente una prospettiva non antropocentrica, che non poteva non scontrarsi con le ideologie dominanti nel suo tempo, infatuate di progresso, e che vedevano la civiltà, la scienza e la ragione umana in costante ascesa.

Leopardi scrive quelle parole a Vieusseux, direttore dell’«Antologia» – che lo aveva invitato a collaborare alla rivista ­­­– proprio per declinare garbatamente quell’invito: il suo sguardo sull’uomo non è infatti di quel tipo che si richiede a chi scriva su un giornale. E aggiunge: «Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza in questo secolo».

Non la si apprezzava nel suo secolo, ma forse neppure nel nostro. Certo il suo pensiero è stato riconosciuto e posto ai vertici della nostra tradizione, come pure la sua opera poetica. Ma quanto ha davvero attecchito nelle categorie e nei concetti che sorreggono le analisi filosofiche del nostro tempo? Non sono molti i filosofi che si facciano carico della complessità delle relazioni in cui è immersa la vita umana. Piuttosto, da quel tessuto ritagliano una piccola parte, astraggono quelle relazioni che credono più rilevanti, o quelle che sanno vedere attraverso i loro strumenti concettuali e i loro paradigmi, cioè, innanzitutto, quelle di tipo economico, sociale e di potere, e solo su quelle ragionano. Come se l’uomo non fosse anche un vivente la cui vita biologica è intrecciata a quella di altre vite, come se l’uomo non fosse anche una specie vivente tra le altre.

Esistono forze su cui noi umani non riusciamo ad agire? Certo, direbbe Leopardi, e guai a non considerarle. Ma se portiamo alle estreme conseguenze certe teorizzazioni di alcuni filosofi odierni, la risposta è ben diversa. È come se dicessero: «Non neghiamo che esistano forze che l’uomo non può dominare (per esempio le tempeste solari, gli asteroidi, i terremoti, le dinamiche del clima), ma per ciò che ora ci interessa possiamo farne astrazione». 

È successo qualcosa di simile anche con il virus che si sta insinuando nei corpi viventi dell’intera nostra specie. Questa entità biologica elementare ha fatto irruzione come un imprevisto nella nostra vita associata, sbucando fuori di colpo da quella parte rimossa di relazioni da cui si pensava di poter fare astrazione. Certamente lo avevano previsto alcuni scienziati e altre voci più consapevoli del nostro tempo, che ragionano seguendo paradigmi epistemologicamente improntati all’ecologia, ma per altri modi di ragionare, il virus è entrato in scena come qualcosa di assolutamente inaspettato, non previsto dalle teorie economiche e politiche dominanti, e neppure dalle teorie del potere che sono state elaborate nel secolo scorso dal cosiddetto «pensiero critico», a cui continuano a ispirarsi alcune riflessioni odierne, come quella di Giorgio Agamben sullo stato d’eccezione. Queste teorie contemplano solo attori umani, sociali. Lo stile di pensiero da cui sorgono manca assolutamente di quell’attitudine a vedere l’uomo in natura, e a proiettare, come invece fa costantemente Leopardi, i fatti sociali su quel più vasto orizzonte, che è antropologico, biologico e cosmico, e che considera anche i tempi lunghissimi della specie umana – che si sta rivelando sempre più fragile, proprio come la dipinge Leopardi nella Ginestra, per di più spinta a gran velocità verso il suo stesso limite. A questo tipo di considerazioni la tradizione novecentesca del pensiero critico sembra del tutto impreparata. Come se nel profondo dei suoi fondamenti si fosse sempre più consolidata l’abitudine ad astrarre l’uomo e le sue vicende da quello da cui pure è impossibile separarlo: dal corpo, dalla specie, da tutto ciò che è vivente e che contribuisce a mantenere la vita sul pianeta, dagli animali, dai vegetali, dai batteri, dai virus, dall’atmosfera, dalla gravitazione e dai fenomeni cosmici. Nelle posizioni assunte da alcuni filosofi nei confronti della pandemia a me pare di intravedere l’effetto di un veleno mentale, quello stesso che denunciava Leopardi: l’astrazione.

Donatella Di Cesare, nel suo intervento uscito sull’Espresso il 20 dicembre scorso, e che mi sento di condividere in pieno, sostiene che non bisogna confondere lo stato di eccezione con lo stato di emergenza, quello che stiamo vivendo a causa della pandemia e di molte altre sciagure del nostro tempo (migrazioni, ingiustizie e – aggiungo io, perché non lo si può dimenticare – il rischio di una sesta estinzione di massa). Io direi però che già nei concetti del pensiero critico novecentesco, di Adorno, di Debord, di Foucault, nel loro modo di analizzare il potere, si avverte una simile lacuna, quella di chi vede il mondo unicamente dominato dall’uomo, nel bene come nel male, dimenticando il suo «basso stato e frale», come se tutto ciò che accade fosse in suo potere, sia che si tratti di determinarlo che di evitarlo. Ha ragione Di Cesare a dire che il pensiero di Agamben scivola nel complottismo. Del resto, che cos’è il complottismo se non un voler credere che ogni fatto del mondo dipenda dall’uomo?, che il corso delle cose possa essere guidato addirittura da pochissime menti? Perciò, di fronte a qualcosa che invece l’uomo non controlla, come l’espandersi di un’epidemia globale, non fa meraviglia che quel modo di pensare si rafforzi ancor più, quasi come in un estremo tentativo irrazionale di riaffermare l’egemonia umana sulle forze naturali. In fondo il complottismo è più consolatorio che inquietante. Secondo Di Cesare bisognerebbe «salvare Agamben da Agamben», cioè difendere i concetti che Agamben ha elaborato in questi decenni da ciò che va sostenendo negli ultimi tempi, come se il suo pensiero avesse subito un crampo. A me sembra piuttosto necessaria una revisione di quegli stessi presupposti – davvero troppo umani –  che stanno a fondamento del suo pensiero filosofico come di molti altri del recente passato. Un pensatore come Leopardi – mi viene da pensare – non avrebbe mai preso quelle cantonate sulla pandemia.

(Pubblicato su “Domani”, il 4 gennaio 2022)

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