Nannetti, scrittore di intonaci all’ospedale psichiatrico di Volterra

di

Roberto Plevano

L’ex ospedale psichiatrico di Volterra.

Paolo Miorandi, psicoterapeuta e scrittore, è tornato nel 2021 a visitare l’ex-ospedale psichiatrico di Volterra. Ed è tornato sul suo testo Nannetti, già uscito nel 2012 per il Margine e da tempo fuori catalogo, con un’edizione corredata da un “Diario del ritorno”, con foto (di Francesco Pernigo) della struttura ormai fatiscente, e di ciò che rimane dei graffiti di Nannetti.

Ho cominciato a immaginare Nannetti nel 2006 dopo aver visitato in più di un’occasione i padiglioni dismessi dell’ex manicomio di Volterra e aver trascorso molte ore davanti al grande libro che Oreste Fernando Nannetti aveva inciso sul muro del reparto.
Negli anni seguenti ho atteso pazientemente che anche quanto andavo scrivendo io prendesse la forma di un libro.

Fernando Nannetti fu recluso all’ospedale psichiatrico di Volterra dal 1958 alla dimissione nel 1973, vivendo poi a Volterra per tutto il resto della sua vita. Solo, taciturno, non ricevette mai visite di congiunti o amici.

La sua fu una delle tante vite ai margini, vite di essere umani poco attrezzati, per nascita, circostanze, tiri della sorte, tratti della personalità, a soddisfare i requisiti dell’esistenza ordinaria, spesso abbandonati da famiglie che non ne volevano più sapere, e per questo istituzionalizzati (“internati”) a tempo indeterminato, considerati irrecuperabili alla convivenza sociale dietro diagnosi psichiatrica di schizofrenia. Si dovette attendere la legge 180/1978 per restituire dignità umana a costoro.

Vite che di solito non lasciano traccia.

Il caso Nannetti tuttavia esce dal buio e dal silenzio nel 1985 con la pubblicazione del libro “N.O.F. 4 Il Libro della Vita“ (Edizioni del Cerro), curato da Mino Trafeli, un artista che aveva lavorato nei padiglioni dell’ospedale psichiatrico di Volterra dopo che “il manicomio” fu chiuso.

Nella quindicina d’anni del suo internamento a Volterra Nannetti dedicò le ore di uscita nel cortile a un enorme ciclo narrativo di lettere e disegni graffiti, incisi sull’intonaco del muro esterno e su una balaustra del padiglione Ferri con l’ardiglione della fibbia metallica del suo panciotto: il suo scalpello, pennello, matita, bulino.

Il panciotto indossato da Nannetti, la divisa dell’ospedale psichiatrico di Volterra e l’ardiglione della fibbia con cui incideva il graffito sui muri esterni del padiglione Ferri. Foto: Pier Nello Manoni

I graffiti coprono una striscia di muro estesa una settantina di metri e alta due, e un centinaio di metri per venti centimetri sulla balaustra; di essi c’è documentazione fotografica, oggi sono seriamente danneggiati dal degrado dell’intonaco e della struttura.

Gli infermieri lo lasciarono fare, dal momento che, dicevano, “finché scrive non dà noia a nessuno” e non disturbava gli altri detenuti. Una sola persona s’interessò al lavoro di Nannetti, intuendo in quei graffi sul muro la traccia della bellezza, e col tempo strinse con lui un rapporto di fiducia: l’infermiere Aldo Trafeli.

Provavo curiosità per qualcosa che non capivo, non la vedevo unicamente come la stramberia che si lascia fare a un povero disgraziato perché non dia noia, era come se ci fosse in ballo qualcos’altro.

Con qualche spiegazione dello stesso Nannetti, Aldo arrivò a comprendere quello strano ammassamento, apparentemente caotico, di figure e lettere cuneiformi, squadrate, angolari, a leggere il libro murale scritto con linee bustrofediche per non interrompere il fluire della narrazione, a trascriverlo salvandolo in parte dal deterioramento dell’intonaco.

Oltre al libro murale, Nannetti scrisse un gran numero di lettere e cartoline, mai spedite, a congiunti di cui ricordava o inventava i nomi e destinatari immaginari, firmandole N.O.F. 4, iniziali di Nannetti Oreste Ferdinando, il 4 probabilmente il numero di matricola, ma anche di “Nucleare Orientale Francese” o, ancora, “Nazioni Orientali Francesi”.

L’intonaco del padiglione fu lasciato poi alla cura degli agenti atmosferici finché un altro artista, appunto Mino Trafeli, riconobbe la necessità che il libro di pietra di N.O.F. 4 germinasse un libro di carta, con l’aiuto del fotografo Pier Nello Manoni, dello stesso Aldo Trafeli per la decifrazione/lettura dei graffiti, e con la prefazione di Giuliano Scabia, forse la personalità più indicata a presentare l’opera di Nannetti. Seguì poi un articolo di Antonio Tabucchi sull’Espresso, il riconoscimento pubblico di Nannetti come artista, l’inclusione della sua opera nella Collezione Art Brut di Losanna.

Opera che interseca prospettive differenti, psichiatriche, estetiche, letterarie, come altre opere di artisti istituzionalizzati e considerate Outsider Art; opere soprattutto di difficile catalogazione, ammesso che abbia un senso applicare categorie alle produzioni di individui con diagnosi di disturbi emotivi o di comportamento. Miorandi accosta l’opera di Nannetti ad altri famosi istituzionalizzati, come Adolf Wölfli e Aby Warburg, che hanno trovato un focus esistenziale, una catarsi, nell’espressione artistica e nella scrittura, nell’eccezionale attività prodotta talvolta in condizioni di internamento. E la scrittura per Nannetti viene a essere l’unico rimedio all’apocalisse quotidiana del manicomio, così come fu per Hachiya Michihico, medico testimone dell’annientamento di Hiroshima. Come fu per Robert Walser prima di quell’ultima passeggiata.

La necessità dell’arte sta anche nell’inevitabile reazione emotiva, viscerale, che precede l’analisi, la comprensione intellettuale, il discernimento delle coordinate, della tradizione, del linguaggio specifico. La risposta emotiva immediata è anzi il primo motivo del desiderio di comprendere, di entrare in qualche modo nel mondo espressivo dell’opera.

I graffiti di N.O.F. 4 toccano corde profonde, l’iniziale enigmaticità dei segni sulla parete muraria muove l’immaginazione dello scrittore Miorandi a dare voce all’artista e al suo mondo, a rendere con le parole di “quanto va scrivendo” le parole interiori di N.O.F. 4, che furono il correlato della sua taciturnità e la chiave dell’enigma dei segni incisi sull’intonaco.

Miorandi conosce la realtà del disagio psichico, è capace di dipanare la logica e la sintassi di un pensiero che si manifesta in forme imprevedibili ed eccezionali, fuori dalle regole. Il Nannetti di Miorandi, “l’uomo invisibile armato di fibbia catodica”, che s’interessa “di tutte queste cose che non si possono vedere, onde, elettricità, magnetismo”, prende vita sulle pagine come un incessante flusso di vissuto che confonde, mescola, rielabora l’insieme delle memorie e dell’esperienza, teso febbrilmente a riversarlo sulla parete del padiglione Ferri.

elettricista antennista, tutto il mondo è mio, la mia mano è un’antenna, loro mi parlano per via elettromagnetica catodica e le parole mi entrano nella mano, le sento salirmi su per il braccio, riconosco il formicolio e la sensazione di calore, è come un solletico, ma ci sono abituato, le mie dita sono tubi d’antenna, i nervi del braccio sono fili elettrici

La scelta stilistica di Miorandi è una prosa di continuo movimento di persone, tempi, prospettive, priva di punti fermi, mimeticamente aderente al magma discorsivo interiore di N.O.F. 4. Il flusso testuale non ubbidisce alla convenzioni del ragionamento e dell’argomentazione, transita senza soluzione di continuità tra il vissuto di N.O.F. 4 e lo sguardo, dapprima distaccato e poi sempre più partecipe, dell’infermiere Trafeli; questi due punti focali si muovono nel testo, come per attrazione gravitazionale, intorno alla coscienza, sensibile, percettiva, dello scrittore Miorandi: “la forma del libro” illustra infatti alcuni momenti dei lunghi anni di reclusione nel manicomio (“questa in fin dei conti rimaneva pur sempre una prigione, sbarre, celle di contenzione, filo spinato”), consumati da Nannetti nell’impellenza di scrivere, da Trafeli dapprima come “guardiano”, poi come testimone e amico di N.O.F. 4. Le voci narranti si fondono in un’unica voce, di autore, di personaggio, di testimone, di poeta incarcerato

diradata la nebbia dello sguardo, si cominciano a percepire i richiami delle cicatrici di pietra, fratelli e sorelle, fratellastri e sorellastre, come tracce di antichi tagli (…) Nannetti Oreste Fernando, il nome chi ti hanno consegnato quando sei arrivato qui, lungo da scrivere e che un’altra volta hai scritto sul muro, questo muro che adesso si apre come un libro di fronte agli occhi; N.O.F. 4, grado colonnello, nato nel 1925, 1927, ventinove, trentadue, nato a Roma, capitale dell’Impero, nella congiunzione astrale tra il triangolo e il rame; il triangolo della faccia, il rame dei fili elettrici (…) basta che non piova a dirotto perché in tal caso non ci portano all’aria e allora non posso scrivere; quando piove dobbiamo girare tutto il tempo attorno al tavolo del refettorio come piccoli pianeti dall’orbita stretta, saturno, mercurio, nettuno, questa tua ossessione per i nomi degli astri e dei minerali, sole uranio, stella uranio, lancio su stella 2040, visioni dell’era spaziale che sta per venire (…) gli stessi superiori ci consideravano guardiani, soldi per loro ce ne davano pochi, noi dicevamo, coi soldi che ci date non potete pretendere che li curiamo, ma chi v’ha detto che dovete curarli, voi dovete sorvegliarli punto e basta

Con la topografia dell’area dei padiglioni, “come se il muro fosse una falesia e noi una barca in cerca di approdo”, Miorandi misura la continuità dell’esperienza dei personaggi attraverso i tempi (“sì, l’ho conosciuto il Nannetti; ne sono passati di anni, adesso non ci vengo quasi più, è come se questo posto mi mettesse paura, anche se paura non è la parola corretta, ha visto com’è ridotto? lasciato andare in rovina”), continuità resa per mezzo di variazioni appena percettibili nel fluire della sintassi:

sono l’unico traduttore del libro che il Nannetti ha scritto sul muro del manicomio; scrivo perché ho informazioni da trasmettere, cose che loro dicono solo a me, per questo, quando ci portano in cortile le scrivo sul muro; (…) allora camminiamo per linee e per cerchi concentrici, lungo orbite silenziose, fendendo un’oscurità senza nome, la spessa sostanza dell’ombra racchiusa, come in una scatola senza coperchio

Se vivere è negoziare una strategia di adattamento a condizioni ambientali per lo più fuori dal nostro controllo, N.O.F. 4, “una di quelle cose per cui non c’è posto al mondo”, si dedica a, anzi inventa, lui solo nel manicomio, un’attività di trasformazione del luogo: il muro, la parete del padiglione, la concretezza della reclusione, diventa la pagina, la membrana polverosa del suo universo mentale, l’opera grande che restituisce al suo autore libera esistenza

l’importante per il Nannetti era di non lasciare vuoto nemmeno un centimetro di muro;  perché quando loro mi parlano per via telepatica magnetica le parole si accumulano nella mia testa e sento la testa che si gonfia, sento le parole premere sulle meningi

L’universo di Nannetti è popolato di membri reali o immaginari della famiglia, (“spinacei”, con la “bocca stretta”, il “naso a y”, perché “secondo il Nannetti noi si discende dai topi, per questo insiste sempre con la faccenda del naso a y, il naso a y è il muso dei topi”), immagini di “cose che non si possono vedere, onde elettricità, magnetismo”, aerei che bombardano, “folgori nel cielo plumbeo, le orbite dei pianeti, la luna, i soli raggianti, i missili interstellari, la casa natale, la profondità uterina delle miniere, il ferro e lo zinco, il mistero della nascita”. È un immaginario formato nella cultura popolare degli anni ’50, la fantascienza dei primi Urania, i rotocalchi, le dispense di elettrotecnica, l’ingenua fiducia nella tecnologia di realizzare a breve viaggi interstellari.

Il muro del Ferri è per Nannetti ciò che sopravvive di un altro tempo e di un’altra vita, e non importa che sia una vita non vissuta, talvolta vissuta soltanto per sentito dire, raccolta da stralci di riviste illustrate, o costruita su frammenti immemoriali di case perdute, di gesti antichi conservati nelle articolazioni delle dita, dell’odore infantile di una carezza, del corpo di una donna osservato da lontano così come si osserva una barca che veleggia al largo.

Ciò che conta non è tanto la massa di riferimenti che i graffiti rivelano, quanto l’esperienza appunto trasformativa, mitopoietica, messa in opera dall’attività continua, ostinata, da invasato, dello scrivere di N.O.F. 4: la prigione, il degrado della promiscuità e della contenzione, le urla, le zuffe, il cortile, i muri, le porte chiuse diventano materia da formare, le pareti incise la mappa del mondo che Nannetti abita, tumultuoso, all’interno della sua testa, le cicatrici di una vita, di un dolore che trova miracolosamente sbocco in storie, l’internato diventa testimone e poeta della scena aperta nella sua mente, e noi, che leggiamo le pagine di Miorandi e sfogliamo le immagini del libro, siamo mossi ancora una volta a riflettere e comprendere l’inaspettato, il sublime, la forza dell’espressione artistica, consegnata a un muro che si scrosta, all’intonaco sbriciolato, alle parole che si fanno polvere nel tempo.

le parole hanno scavato la materia per oltrepassare la bianca opacità del muro, dicono ancora casa, fratello, sole, talvolta persino stella e astronave, e allora il muro si apre e vi si può appoggiare sopra l’occhio e guardare fuori, verso il declivio verde che conduce al mare, e i cieli della sera trapuntati di luci, e le grandi città rombanti, e i sorrisi fuggiti via lungo i viottoli di campagna.

Paolo Miorandi, Nannetti. La polvere delle parole, Exòrma Edizioni, 168 pagine, 16 euro.

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