Le speranze cieche. In ricordo di Guido Ceronetti

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In questi mesi, sto rileggendo l’intera opera pubblicata di Guido Ceronetti. Per oltre vent’anni, ho frequentato i suoi scritti. E, con il passare delle stagioni, sempre più ho sentito e sento una prossimità con questo anacoreta postmoderno, così distante dall’epoca, dalla sua volgarità e dalle sue logiche. Ceronetti è stato per me – e ancora è – un modello, un esempio, tanto da un punto di vista teorico-letterario quanto da quello esistenziale. Eppure, per quasi vent’anni (considero i miei trent’anni il punto di svolta nella mia capacità di giudizio), non ho mai sentito l’esigenza di scrivergli e, ancor meno, di scrivere su di lui, riconoscendo pubblicamente l’enorme debito contratto e indicando la monumentalità di un’opera, ai miei occhi, senza pari nella letteratura e saggistica italiana di quegli anni. Vorrei, quindi, esprimere almeno un pensiero di gratitudine per lui; dire una parola che, proprio in quanto tardiva è, come ogni gesto tardivo, anche testimonianza di un’ingiustizia.
Quel che ho sempre amato in Ceronetti è la sua capacità di esporsi e di esporci alla verità. Non c’è una sola riga nei suoi scritti che non faccia i conti con la realtà umana, con la cruda realtà della vita, senza mai cercare una scappatoia, una forma di sublimazione o di illusione; senza mai imporsi quel silenzio che aiuta a non farsi nemici o a non rendersi antipatici al secolo. Ceronetti è analitico e di una lucidità dolorosa. L’orrore e la banalità dell’esistenza vanno detti. Non ci sono mai attenuanti. Quello che è va detto, perché non dirlo vorrebbe dire mancare al compito a cui uno scrittore è chiamato: farsi cassa di risonanza della realtà, dire la terribile verità del mondo. E questo fondo del mondo, marcio e putrescente, va detto con una parola asciutta e senza sbavature. Una parola nuda. La scrittura di Ceronetti è tagliente, precisa come un bisturi. Ferisce, spesso. Ma è anche profondamente pervasa di pietà, di profonda compassione e tenerezza per ogni aspetto della bruta materia umana e non solo umana. Ceronetti è lo scrittore più profondamente tenero che abbia mai letto. C’è in lui una capacità di empatia con la sofferenza universale che travalica ogni sentimento di bontà. Si tratta di qualcosa di più radicale; di una sorta di visione tragica dell’esistente che riesce a sospendere ogni anestesia, mettendoci in contatto con il cuore pulsante della vita, cioè, con noi stessi.
Non c’è alcun crudele compiacimento nel suo sguardo. Ceronetti è solo uno scrittore che prende seriamente la scrittura, il suo compito e la sua vocazione. È serio, in un’epoca di pagliacci. E la sua serietà non gli è mai stata perdonata. Ceronetti è, senza dubbio, come avrebbe detto la sua amica Cristina Campo, un imperdonabile. E, come a tutti gli imperdonabili (non molti nell’italica patria), non gli è mai stata perdonata l’aspirazione, non soggetta a trattativa, verso la perfezione e verso la bellezza, della lingua e dell’esistenza. Ceronetti non poteva scendere a compromessi, quelli che probabilmente gli avrebbero reso la vita meno difficile e il successo letterario più semplice, perché sapeva che un mondo in cui si abdichi alla verità e alla bellezza è un mondo che perde la sua intelligibilità. Una constatazione semplice e senza possibilità di scelta. Rinunciare a una, la verità, o all’altra, la bellezza, (ma si dà verità che non esponga alla bellezza e bellezza che non contenga una verità?) significa rinunciare a vivere in un mondo di senso; significa sprofondare in un circolo vizioso in cui nulla ha più un reale significato: significa porre fine a una civiltà. Detto altrimenti, significa destinare l’umanità alla sopravvivenza, a una sopravvivenza, sempre più lunga e comoda, sicura e al riparo da imprevisti. Ma sopravvivere non significa vivere. Sopravvivere significa prolungare il proprio soggiorno nel tempo abdicando all’emergenza, spesso inquietante e perturbante, di un senso dell’esistenza. Esistenza che, di conseguenza, dovrà essere sempre più ingabbiata dentro a un reticolo di passatempo, di forme di distrazione di massa che permettano di non scorgere l’insensatezza del tutto. La realtà stessa, alla fine, dovrà scomparire per lasciare spazio alla sua virtualizzazione, alla sua instagrammazione, al surrogato di senso che è il “like”. Ne emergerà, così, un’umanità che non vede più nulla, che non sente più nulla, ma che è costretta, per sopravvivere al nulla che tutto divora, ad aumentare il reale, a gamificarlo, ad amplificarlo, a potenziarlo. Sarà, quella che avrà perduto il senso della verità e della bellezza, un’umanità sedata, anestetizzata, al riparo dalla sofferenza, ma senza un senso della vita e, soprattutto, senza speranza. Un’umanità, per parafrasare Domenico Brancale, che non sa più che farsene delle candele.
In una rarissima intervista per la televisione svizzera, un Ceronetti spaesato e un po’ attonito terminava il suo intervento richiamando come unico fine della propria opera di scrittore e di uomo di teatro l’aver cercato di testimoniare delle speranze cieche che, anche di fronte all’insensatezza del tutto, spingono l’umano a cercare un senso, proprio quando tutto sembra negarne l’esistenza. Ecco, se c’è qualcosa che Ceronetti mi ha insegnato è a continuare a credere in queste speranze cieche e ad avanzare nella vita, nella scrittura e nell’arte, seppur talora come un cieco, alla ricerca della bellezza che le sottende e le sorregge. Mi ha insegnato che per vedere, a volte, occorre sapersi acciecare; per ascoltare, bisogna sentir risuonare il silenzio; per leggere, occorre saper alzare gli occhi dalla pagina; per affermarsi, talvolta, occorre rinunciare. Solo così il mondo ha un senso. E quel senso coincide con la cieca speranza radicata nei nostri cuori. In questo sforzo di attenzione verso la realtà, la nuda realtà, la vita assume una grazia, una grazia ricevuta non si sa da chi, non si sa perché ma di cui noi siamo parte e di cui noi beneficiamo. A Ceronetti, sia resa grazia, in saecula saeculorum, per avercelo ricordato.

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