Latte

di

Le due madri (1889) di Giovanni Segantini

Da qualche mese il latte le sgorga dal seno e il marito non dorme più con lei. Questo perché il marito è morto, e con lui anche il sogno di un figlio. 

Non si sa bene come sia morto, aveva detto a un’amica qualche tempo prima, si sa solo di uno schianto, una notte, contro un tronco. Anche i giornali avevano descritto l’evento con un titolo che sembrava essere stato riutilizzato più volte.

Schianto nella notte in periferia: morto il guidatore, l’albero non crescerà più.

L’amica l’aveva invitata per cenare insieme, qualche sera più tardi, nella sua casa dispersa fra le colline. Poi bere un bicchiere più del dovuto e ridere di quella volta in cui lui aveva versato il vino addosso al sindaco, o di quella in cui ha chiamato in comune per ordinare una pizza.

Ti ricordi come arrivarci? le aveva chiesto.

Non ci sono mai stata. 

Sarà venuto qualcun altro, poi aveva proceduto a descriverle con linee e figure l’esatta direzione da seguire per raggiungere il casale. 

È una via privata, non fermarti anche se non vedi uscite, aveva specificato.

*

La sera, mentre indossa le scarpe pensa al sesso. A come, con il piede, stia penetrando a fatica lo stivaletto che ha scelto. Usa tutta la grazia e la dolcezza della prima volta che hanno cercato un figlio: il marito le aveva preso le guance in mano, come se, scalatore, cercasse l’appiglio più sicuro nelle sporgenze delle sue gote. 

Non era rimasta incinta: il ciclo è arrivato qualche settimana dopo, e il sangue, sorgente, era sgorgato da lei come avrebbe voluto sgorgasse il latte. Poi era arrivato anche il latte, qualche tempo dopo, a partire dalla settimana in cui aveva saputo del sinistro. Ma la pancia rimaneva piatta, e le mestruazioni tornavano, anche se non più secondo il ritmo in quarti scandito di settimana in settimana. Piuttosto, seguendo i battiti di un metronomo rotto. 

Signora, lei crede di essere incinta? le aveva chiesto il ginecologo. 

Non aveva risposto. Poi si era parlato di gravidanza isterica, di bambini che sembravano arrivare e che in realtà non arrivavano mai.

*

Il cielo s’è già illividito, sfumando sul viola e sul lilla dove l’atmosfera si appoggia all’orizzonte: lungo la strada, un’intera folla di girasoli si volge a guardare il sole che scende; dall’altro lato, un campo arato, ma vuoto. Scorticata dal vomere, la terra s’incurva lungo il crinale che scende lento a valle ed espone le membra di zolla in zolla. Un contadino passa col trattore a filo sul bordo del fossato: preciso come un righello, non sembra mai rischiare di caderci dentro con una ruota.

Lei, guardando sul sedile del passeggero si rende conto di non aver portato nulla in dono: di solito compra un cabaret di pasticcini, evitando il rischio di sfigurare con un vino di scarsa qualità. 

Suona il clacson e, dal trattore, scende, colosso, il contadino: le chiazze sulla giacca d’un blu sbiadito sono vecchie e descrivono una geografia interessante, come se ogni macchia definisse i confini di uno stato che galleggia sul mare.

Il campo di girasoli è suo? chiede.

Sì, risponde. 

Posso prenderne un paio?

Il contadino, ondeggiando con la testa, accenna un sì. 

Ho buttato i semi alcuni anni fa, poi sono cresciuti spontanei due anni dopo, dice, Mia moglie non ha fatto in tempo a vederli. 

Morta? chiede lei.

Se n’è andata. 

Non si è più fatta sentire?

Mai. Poi, voltandosi verso il campo, Spero che torni, di nascosto, a guardarli.

*

Entrata in casa, la stringono entrambi, assediandola dietro la carne di quattro braccia. Marie penitenti, le sorridono pietosi chiedendo se sia stato difficile trovare la casa. 

No, è esattamente come me l’hai descritta. 

Bene, risponde l’amica, e intanto allunga le mani verso i fiori, Sono radiosi, dove li hai presi?

Lei non risponde. 

Prima di salire vorremmo farti vedere la stalla: ci sono i vitelli e una vacca ha appena partorito, dice il marito. Quindi escono e, nel buio appena arrivato, gattonano fino all’entrata in lamiera. Dal portone esce una puzza fresca: come quando qualcosa è marcito in frigo, e, solo aprendo l’anta si può liberare l’odore. 

Le vacche stanno tutte mangiando: la testa esce dalle sbarre e respirano l’aria intrappolata nel fieno mentre si abbuffano. In fondo alla stalla, una mucca, maratoneta, è sdraiata a terra esausta. Il petto diventa faticosamente enorme, per poi rattrappirsi e ricominciare il ciclo; un vitellino ancora bagnato le bacia una mammella: succhia disperato il primo latte; il terreno impastato con la paglia si stropiccia in un lercio lenzuolo. 

*

Non è la prima che partorisce in questi giorni, dice l’amica, Abbiamo tre nuovi vitelli. E col dito, giavellotto, mira verso il lato opposto. In una gabbietta, i vitellini dalle gambe ancora gracili sgambettano felici in uno sconclusionato girotondo. 

È così bello vederli nascere, dice il marito. 

Sì, l’amica intanto è tornata a osservare il neonato, Speriamo che questa vacca si riprenda, lasciamola riposare.

Qualche minuto dopo sono di nuovo all’ingresso.

Potresti toglierti le scarpe prima di salire? chiede il marito, Alla scandinava, si giustifica.

*

La serata si esaurisce in fretta: ridendo ancora dei racconti che sono usciti fra un bicchiere e l’altro, gli amici l’accompagnano alla porta. Sedendosi sulle scale, le scarpe sembrano entrare più facilmente. Il caldo che riempie, etere, la casa sembra sciogliersi in un gradiente che finisce con la porta.

Dovresti tornare, dice l’amica, Magari per pranzo, così, col sole, ti portiamo a passeggiare nei campi. 

Lei sorride e mormora un sì. 

D’estate facciamo anche la semina: chiamiamo tanti amici e passiamo la giornata insieme. Poi si cena e si dorme tutti qui. Potrebbe essere un buon momento per conoscere qualcuno, dice il marito. 

Salutandosi con un nuovo abbraccio, che questa volta sembra meno incarcerante, esce affrontando col naso il freddo notturno. Sdraiata nella valle, la città è incendiata da tante piccole fiammelle. Invece, tutt’intorno è buio, bloccato in uno straziante silenzio. Di giorno, anche gli alberi sembrano fare rumore, ma di notte muore tutto, tacendo. 

L’unico rumore è il pianto di un vitello, che arriva, contralto, dalla stalla; e l’unica luce è la torcia del suo cellulare, che descrive di ombra in ombra il sentiero più battuto per arrivare al portone in lamiera. Arriva zampettando e la apre badando a non fare rumore.

Le vacche dormono. Solo alcune sono ritte sulle zampe e si muovono intorno per cercare il letto migliore che possa ospitarle per la notte. In fondo c’è il vitello, ancora sdraiato sul fango che cerca di spremere ancora un po’ di latte. Davanti a lui, il petto della madre non si espande più, non si stirano più le chiazze scure, e le costole, calanchi, scendono curve verso terra: rimane marmoreo, come una scatola pezzata.

Intanto lei ripensa a come avrebbero voluto chiamare il figlio: avevano raggiunto un accordo a fatica. Abbracciandosi, se l’erano sussurrato all’orecchio.

Lo sussurra anche ora, come per chiamarlo, attore, sul palco; illumina la gabbia con la torcia: le sbarre incorniciano la scena. Ogni volta che il neonato muggisce acuto, il seno si inturgidisce, e il capezzolo sembra allungarsi, come se fosse succhiato. Il latte spilla goccia per goccia sul cotone che le copre la pelle e una chiazza umida comincia a raffreddarsi sul tessuto. 

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