L’amore ai tempi di Di Fiore

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Può l’inutilità essere qualità, attributo del sentimento amoroso?

È questa la domanda che sovviene stringendo tra le mani il romanzo di Gianfranco Di Fiore L’amore inutile (Wojtek Edizioni), mentre gli occhi di Lei e Lui in copertina, fissi  in uno scatto dal sapore nouvelle vague,sembrano proteggersi dallo sguardo del lettore, come a scongiurare qualsiasi intrusione.

La risposta è no. Utilità o inutilità non sono due caratteristiche, di per sé, ascrivibili all’amore. Almeno fino a quando non si inizia a leggere e si è di colpo scaraventati nella narrazione. È soltanto allora, scorrendo pian piano le righe che compongono come tessere di un mosaico la storia, che ci si accorge che il sentimento indicato nel titolo L’amore inutile, fa riferimento ad una rara declinazione di esso. Una condizione, quella dell’amore evocato, che non inerisce né alla consolazione né al medicamento, quanto piuttosto alla purificazione e alla rinascita.

È a questo tipo di amore che Gianfranco Di Fiore affida un compito molto arduo, valicare la gradazione ordinaria in cui questo sentimento generalmente si esprime e riuscire in ciò che il mondo intorno ai protagonisti ha fallito, ovvero: risolvere due complessità irrisolte, quella di Lei e Lui

 “Quando una donna smette di parlare è solo per nascondere un dolore. Era capitato lo stesso alla nonna, alla madre e alle amiche di lei che non incontrava più da un anno. Tutte le donne che avevano fatto parte della sua vita – sia prima che dopo l’ultimo periodo di isolamento – avevano smesso di parlare. Era dunque il silenzio la vera dimensione dell’oblio: non la sofferenza, non la caducità di quel corpo che continuava a mutare e a spaccarsi, a nascondere cicatrici, grasso e smagliature leggere. (…) A lei invece interessava soltanto il suo corpo, le sue tette rigogliose e dure, il lusso e la sua bellezza nevrotica che non riusciva più a gestire e a cui doveva trovare un posto sicuro, lontano dalla famiglia, immaginare una via di fuga da quell’autodistruzione di cui nessuno era a conoscenza e che la stava trascinando a fondo, verso un buco nero.”

La particolare e affascinante complicatezza della storia d’amore di Lei e Lui è tutta qui, nel tentativo di  “catarsi” di due esistenze sparpagliate dal caso come chicchi di grano. Una rinascita che non avviene al fuoco avvolgente della passione e dell’eros, quanto piuttosto lungo il canale esclusivo della conversazione telefonica. 

Voci al telefono, quella di Lei e di Lui, come ponti che mettono in collegamento i rispettivi mondi. La voce di una donna e la voce di un uomo che non si sono mai incontrati prima, i cui occhi non hanno mai finito per tuffarsi gli uni negli altri.

Lei una a cui la sua sopravvalutata bellezza le aveva infettato l’adolescenza, rendendola simile ad un cane con la rabbia. Ricca da non conoscere la fatica che vi è dietro il denaro, determinata quanto solo una donna che conosce bene la forza che può esercitare un corpo ben fatto può essere, vuole di più, sempre di più: tramutare la sua bellezza in perfezione. Una perfezione da raggiungere ad ogni costo. Quella perfezione che spalanca i sentieri che da sempre percorrono solo i più rapaci dell’umana specie verso quei beni che sono garanzia di ascesa  sociale: ricchezza, prestigio e potere.

Furono i medici a portarle via le parole, riducendola al silenzio, a mortificare in lei un’idea di corpo quasi sacro. La chirurgia rovinò le sue forme e saturò ogni speranza di perfezione; dopo l’intervento andato male si ritirò in casa. (…) Abbassò il pantalone di filo di Scozia sino alle caviglie e ritrovò l’orrore riflesso e sordo nello specchio. Le possibilità di ripresa erano pari a zero. I medici avevano provato diverse cure ma lo sfregio era rimasto; apparteneva a lei, né a sua madre né al padre. Ma loro dicevano che era colpa sua, che era malata, che loro l’avevano messa al mondo già bella, ma troppo fragile. Loro dicevano tante cose, cose senza cuore. Così non le restavano che gli occhi chiari, le labbra piene e gli zigomi alti, i capelli lunghi e di buona fibra, e un seno che in tanti avevano leccato e su cui da anni non dormiva più nessuno.

Lui uno che il mondo ha imparato a fermarlo negli scatti di una macchina fotografica, così da guardarlo meglio e magari provare a capirlo. Uno che sa bene che le immagini non hanno bisogno di parole, perché parlano da sole. Come l’immagine di Lei, un giorno, per caso. L’aveva intravista una volta e da quella volta mai più.

Lui che conosce così bene il dolore e il silenzio di quando si è soli e tutto sembra perso, da poterne parlare per ore al telefono ed essere guida nel buio di Lei. Parole che viaggiano lungo il suono della voce, come a insufflare il vento caldo della vita.

Non le bastava aver risentito la sua voce. Quando ci s’innamora nel dolore bisogna prepararsi a stagioni gelide, a lunghi inverni: le donne lo capiscono da subito e non fanno niente per mettersi al riparo. Ma lui era un accumulo di parole, un’ellissi che orbitava intorno a un sole spento, non le era mai stato di fianco al risveglio e non conosceva il suo sapore; le raccontava delle storie a cui lei credeva, metteva in pausa i propri timori facendoli sparire in quelli di lei; usava un vocabolario terapeutico, creativo, dove tutto sembrava efficace e in ordine, e lei che trovava insopportabile comunicare con gli uomini, senza volerlo, con lui si riscopriva mite e nuda, e al tempo stesso protetta in quella bolla di eloquio intellettuale, che arrivava da chissà quale galassia sperduta.

Lei e Lui, anime in pena, due voci che hanno bisogno l’una dell’altra per andare avanti. Lei con uno sfregio sul corpo portato come uno stigma, una pena comminata dalla natura che si ribella alla sua voluttà. Lui che la ferita la porta nell’anima, in un passato ancora troppo vicino per poter cicatrizzare. 

E poi la liturgia del silenzio, il vuoto tra una parola e l’altra, il non detto per non spaventare e allontanare. Vi è la paura di rimanere soli, di scoprire un giorno che non c’è più nessuno dall’altra parte del telefono. Vi è la paura di incontrarsi, tuffarsi occhi negli occhi  e scoprirsi diversi da come ci si era immaginati.

Un amore fermo alla parola sussurrata, al suono della confidenza, dove la voce scava dentro e accende il meccanismo del desiderio e della fantasia, panacea alla solitudine e all’abbandono dei protagonisti, dove l’invito catulliano del Carme 5 rivolto a Lesbia, in cui il poeta esorta l’amata a scambiarsi “…mille e cento baci, e cento e altri mille ancora”, a lasciarsi andare completamente al fuoco dell’amore, è un moto troppo rischioso per poter essere assecondato da due anime fragili.

E allora? Che fare? Si può davvero rimanere aggrappati ad una voce?

Il sole infuocato e il profumo d’erba tagliata non facevano parte del misero mondo degli uomini. L’estate era fatta per gioire, per rimanere in strada tutto il giorno e consumare le scarpe, per sorridere e rimandare ogni scelta. La luce non finiva mai, e il vento del mattino teneva tutto insieme, non divideva, non allontanava, la brezza che saliva dal mare era una mano tesa verso lo stupore. In estate erano tutti dei sognatori, bambini e adulti, maschi e femmine. Il padre di lei, c’erano delle sere in cui sorrideva, beveva rum e organizzava viaggi che non finivano da nessuna parte, la madre prendeva il sole in terrazza e voleva che sua figlia invitasse a pranzo quel giovane sconosciuto, che nessuno aveva mai visto. Si preoccupava per lui e sperava di incontrarlo, per ascoltare da vicino la sua voce.

La storia raccontata da Gianfranco Di Fiore sfugge ad ogni tentativo di classificazione. Limitativo e fuorviante è pensare di ascrivere L’amore inutile alla categoria del romanzo d’amore, tale è la varietà di suggestioni che attraversano il testo e la molteplicità dei piani di lettura offerti da esso. Sopra ogni cosa L’amore inutile è un viaggio negli anfratti più reconditi e bui dell’animo umano, viaggio condotto mediante una scrittura dalla capacità immaginifica poderosa, in grado di scandagliare le pieghe e i risvolti più sottili della mente e dell’istinto, in un alternarsi di capitoli dove la tensione emotiva che segue la traiettoria di un vortice ascensionale, talvolta sembra procedere senza soluzione di continuità, talvolta sembra essere sull’orlo della deflagrazione, sorprendendo e spiazzando ogni volta il lettore. 

Un’istantanea delicata e intima sull’evanescenza e sulla labilità delle relazioni umane, frammentarie e interrotte come solo le conversazioni al telefono possono essere, dove l’estetica dell’abbandono e della solitudine propria del nostro tempo, sembra trovare risoluzione soltanto in una sorta di soteriologia laica. Una storia, quella di Lei e di Lui, che in realtà parla di noi, nel modo in cui soltanto la letteratura, quella vera, riesce a fare. 

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