La lettura rende liberi?

di

Giada Ceri

Un libro ben scelto, secondo un’affermazione attribuita allo scrittore Daniel Pennac, ti salva persino da te stesso. Dalla retorica degli effetti benefici della lettura, invece, non ti salva nessuno.

Non intende essere, questa, l’ennesima riflessione sconsolata su quanto poco si legge in Italia, mentre il mercato a quanto pare se ne frega e cresce (almeno qualcuno è contento, verrebbe da dire). No, io vorrei piuttosto andare a fondo di quella che sembra una domanda retorica: leggere fa bene? Difficile rispondere no, almeno in termini molto generali, e addirittura impossibile quando ci si trova a lavorare in determinati contesti. Io per esempio attualmente insegno in una scuola secondaria di primo grado (alle medie, cioè) che è coinvolta in ben tre progetti di promozione della lettura. Potrei rispondere “No”, “Forse”, “Dipende”, o anche “Non so”, senza rischiare la censura o qualche genere di richiamo magari informale ma complicato da eludere? Perderei di credibilità in quanto insegnante, per l’appunto, di lettere?

E sia, allora, vada per i tre progetti, la cultura rende liberi, leggere fa bene… Però vorrei almeno chiedere in che cosa questo bene consista, chi lo definisce, in base a quali convinzioni, diciamo anche interessi, e secondo quali criteri di valutazione. (Già, la valutazione, questo formidabile pilastro pedagogico, corredato dal suo bravo rosario di decreti legislativi e ministeriali, ordinanze, linee guida, indicatori e descrittori.)

Quattro giorni di libertà in cambio di un libro

Alcuni anni fa i giornali italiani hanno dato concisa notizia del Reembolso através da leitura, programma di recupero approvato nel 2012 negli Stati del Paraná e del Ceará sotto la presidenza di Dilma Rousseff e realizzato poi anche altrove nella repubblica federale brasiliana.

In sostanza, il Reembolso prevede uno scambio tra la persona detenuta e l’amministrazione penitenziaria per cui la lettura di un libro entro ventotto giorni viene ricompensata con quattro giorni di sconto della pena, fino a un totale di quarantotto giorni in un anno. La lettura viene verificata attraverso una recensione scritta (valutata in base a parametri prestabiliti: comprensione del testo; uso corretto dei paragrafi, dell’ortografia, dei margini; grafia comprensibile) e un colloquio con un docente; per ottenere lo sconto occorre superare queste prove con un punteggio pari almeno a sei. Al Reembolso possono accedere, fra le persone detenute, soltanto quelle che il giudice autorizza tenendo conto del reato che hanno commesso.

Circa i risultati di questo programma non sono stati resi noti dati puntuali ed esaustivi neppure dai media brasiliani che si sono occupati di quell’esperienza; tuttavia, anche in Italia si è tentato di sperimentarlo, con alcune minime variazioni.

Nel 2014 l’allora assessore alla Cultura della Regione Calabria Mario Caligiuri presentò una proposta di legge che prevedeva l’istituzione di un corso di lettura e analisi critica per i detenuti inquadrato entro una concezione non punitiva ma rieducativa della pena e fondato su questo assunto: chi legge conosce più parole, e chi ha più parole ha più idee; possedere più idee significa avere una visione del mondo, e qui torniamo al reo, perché chi ha una visione del mondo riesce a distinguere il bene dal male (sic!). La proposta di legge arrivò in Parlamento e lì fu sepolta.

Un anno più tardi, nel 2015, ci riprovò la deputata Pd Daniela Sbrollini, che inserì il metodo brasiliano in un progetto legislativo rimasto esso pure nel novero sempre fitto delle buone intenzioni.

Nei primi mesi della pandemia da Covid-19, infine, il Reembolso ha trovato una nuova declinazione alla Casa circondariale “Le Sughere” di Livorno, quando i colloqui in presenza con i familiari furono sospesi allo scopo di prevenire il contagio: lettura di un libro fra quelli proposti dal bibliotecario e dai volontari impegnati nel progetto, compilazione di una scheda per la verifica dell’avvenuta lettura, “premio” – consistente in una telefonata o videochiamata in più rispetto a quelle previste dal regolamento.
Per il momento, sembrerebbe finita qua.

Buoni detenuti o cittadini responsabili?

Allora, la cultura rende liberi? Ponendo una domanda del genere si rischia di montare ancora di più la panna della retorica. Ma la questione è puntualmente normata in carcere: partiamo allora da qui. Il carcere è un’invenzione di cui si è constatato più volte il fallimento, ma può servire da cartina di tornasole in quanto enfatizza, e secondo alcuni addirittura anticipa, certi meccanismi che nel mondo non recluso è meno semplice mettere a fuoco.

Dice dunque l’articolo 1 dell’Ordinamento penitenziario (che risale al 1975): “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda […] al reinserimento sociale degli stessi”. E l’articolo 27 poi afferma che negli istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive, ricreative e ogni altra attività volta a realizzare la personalità dei detenuti e degli internati, sempre con riferimento al trattamento rieducativo. Gli articoli 12 e 19 della medesima legge prevedono esplicitamente la presenza di una biblioteca in ogni istituto penitenziario, e l’art. 21 del regolamento di esecuzione del 2000 dispone che la biblioteca sia costituita da libri e periodici scelti in modo tale da garantire “una equilibrata rappresentazione del pluralismo culturale esistente nella società”, e che le persone detenute possano accedervi agevolmente o consultare altre pubblicazioni disponibili presso biblioteche e centri di lettura pubblici.

Insomma ce ne è abbastanza per concludere che la “cultura” rappresenta uno degli strumenti utilizzati per raggiungere la finalità che la Costituzione prevede all’articolo 27 – la rieducazione del condannato. Per inciso: “rieducazione” ad alcuni non piace, e in attesa di cambiare le cose, o nell’impossibilità di farlo, si cambiano le parole e si parla di risocializzazione, riabilitazione, reinserimento. Anche questi termini però conservano un vago sentore morale secondo me inappropriato e allarmante quando emana dallo Stato – uno Stato oltretutto, quello italiano, che la Corte edu ha più di una volta condannato per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, con il quale si vietano in termini assoluti le pene inumane e degradanti. Come fa anche la nostra Costituzione, sempre all’articolo 27, dal 1948. Repetita non iuvant. (Sempre per inciso, quando si parla di detenuti converrà ricordare che uno su sei è in attesa del primo grado di giudizio, nelle galere italiane, e due su tre si trovano in custodia cautelare secondo l’ultimo Rapporto dell’Associazione Antigone.)

Tornando alle domande da cui siamo partiti, ad ogni modo, la risposta sembrerebbe inequivocabilmente sì, leggere fa bene, ci si aspetta che faccia bene, che abbia qualche effetto positivo sul “reo” e lo trasformi. D’accordo: ma lo trasformi in che cosa? In un cittadino responsabile o in un buon detenuto?

Una passione per l’ossimoro

Leggere libera-mente. Scrittura d’evasione. Liberare le storie… Non c’era che da gettare le reti, almeno prima della pandemia, nel mare magno della “cultura in carcere”. Nelle nostre galere c’era molta scrittura, pur inegualmente disseminata fra i progetti, i laboratori e i concorsi che si svolgevano peraltro fra vari accidenti e spesso in maniera discontinua qua e là negli istituti di pena.

Ma sapevamo (non sono passati neanche due anni) con ragionevole precisione quanti e quali fossero quei progetti e laboratori, le iniziative una tantum e le attività che aspiravano a una continuità nel tempo? Da chi venivano svolti? Con quali scopi e quali finanziamenti, difficoltà, risultati? No, non lo sapevamo.

Fra il 2016 e il 2017 il Centro Sociale Evangelico di Firenze, in collaborazione con la Fondazione Giovanni Michelucci, ha svolto un monitoraggio delle attività organizzate dal settore non-profit in ambito penitenziario e post-penitenziario, comprese appunto quelle legate all’istruzione e alla “cultura”. L’indagine, proseguita nel 2017-18, ha dato luogo alla piattaforma digitale DentroFuori Network (www.dentrofuorinetwork.org): un luogo pensato per rendere disponibili ai soggetti pubblici e privati interessati informazioni omogenee e aggiornabili sugli enti censiti, migliorare la conoscenza dell’esistente, rendere gli interventi più incisivi, e anche perché quanti operano in questo settore possano confrontarsi e magari collaborare. O, meglio, potessero. Già nel corso monitoraggio emersero problemi in parte legati al fatto che si trattava di carcere, la più resistente fra le istituzioni totali, poco incline a parlare di sé e a trasmettere informazioni e capace invece di esercitare un controllo crescente sulle associazioni di volontariato. Mancavano poi protocolli che definissero norme e procedure valide per le attività relative allo stesso settore di intervento. Infine, la concorrenza tra le organizzazioni del terzo settore: nell’affollato mercato della marginalità bisogna pur sopravvivere. Insomma, dopo i primi due anni il monitoraggio si è concluso e non è più stato finanziato.

Un’altra ricerca l’ha condotta successivamente icrios – The Invernizzi Center for Research on Innovation, Organization, Strategy and Entrepreneurship dell’Università Bocconi, in collaborazione con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia (Creare valore con la cultura in carcere. 1° rapporto di ricerca sulle attività trattamentali negli istituti di pena a Milano, a cura di Filippo Giordano, Francesco Perrini, Delia Langer, Luigi Pagano, Ed. EGEA, Milano, 2019). L’indagine intendeva tracciare una mappatura delle attività rieducative svolte nei tre istituti di pena milanesi di Bollate, Opera e San Vittore, analizzarne le caratteristiche, mettere a punto una metodologia utile a misurarne l’impatto, mostrare gli elementi di forza e di debolezza, far emergere il valore prodotto, nei penitenziari, da volontari, organizzazioni del terzo settore, istituzioni pubbliche e imprese. Finalità dichiarata: rendere sempre più efficace l’azione svolta.

Non mi risulta che le esperienze toscana e lombarda siano state tentate anche altrove. La “cultura in carcere”, o quello che ne sopravvive dopo la pandemia, resta quindi una nebulosa imperscrutabile. Questo nonostante le intenzioni lodevoli (o che è difficile biasimare) e il visibilio di iniziative intitolate alla creatività in un contesto che conserva la vocazione esattamente opposta. Mancava, e mi pare continui a mancare, una riflessione collettiva e disinteressata su cosa significhi rieducare attraverso la cultura. D’altra parte, nel mercato mai saturo della devianza e della criminalità l’offerta di attività culturali e ricreative rappresenta una quota di nicchia: da difendere e riconquistare a ogni nuovo bando. E poi la retorica del valore terapeutico della “cultura” ha da vedersela, e non c’è partita, con quella che magnifica il valore rieducativo del lavoro. Ecco, il lavoro: una categoria concettuale i cui limiti si sono progressivamente sbrindellati fino a comprendere il lavoro inframurario (commissionato cioè dall’amministrazione penitenziaria medesima: come la mettiamo con il conflitto di interessi?), i lavori socialmente utili (ce ne sono dunque anche di inutili?), il volontariato. Volontariato svolto in alternativa alla cella.

Certe offerte sono davvero difficili da rifiutare, eppure si insiste a parlare di volontariato. Ha una passione inestinguibile per l’ossimoro, l’istituzione totale.

Do ut des

Concludo tornando al punto da cui sono partita: la cultura rende liberi? I libri ci aiutano a diventare persone migliori?

In galera è notoriamente abbastanza complicato dire di no, e comunque un corso di lettura o scrittura creativa è un prezzo non troppo salato per trascorrere un paio d’ore fuori dalla cella. Ma alla mistica della creatività in cattività e all’“amore per i libri” che in tanti si adoperano a promuovere e inoculare io preferisco senz’altro la “pena della lettura” annunciata nell’aprile 2013 dalla Corte di giustizia dello Stato di San Paolo. Gusto del paradosso? No: principio di realtà. La dimensione strumentale dello scambio è connaturata al rapporto fra l’istituzione penitenziaria e le persone detenute, la cui rieducazione, secondo quanto prevede l’Ordinamento, si basa su precisi meccanismi di punizione e premialità. La nostra giustizia resta fondamentalmente retributiva, insomma, e il gioco delle parti in prigione conserva le sue regole, quelle scritte e anche (a volte: soprattutto) quelle non scritte. Allora perché non rendere lo scambio finalmente schietto, e magari sensato, entro i limiti parecchio ristretti del senso che si può attribuire all’istituzione totale? Perché non sospendere il giudizio circa le più o meno libere, sincere intenzioni in un contesto – la galera – che è pensato e fatto apposta per privare della libertà e ridurre l’intenzione a esecuzione?

In questa prospettiva il Reembolso brasiliano dà una risposta che può essere presa alla lettera, per avviare sperimentazioni adattate al contesto italiano, ma può anche offrire lo spunto per una discussione fra quanti si occupano di ciò che finisce nel buco nero della cultura in carcere. Una discussione libera, si spera, dagli incantamenti e dalle ipocrisie che spesso accompagnano la “rieducazione” e la “cultura”, due parole capaci di produrre conseguenze molto serie se prese da sole, figuriamoci in coppia. Una riflessione a più voci (comprese magari quelle dei detenuti) per chiarirsi le idee su cosa intendiamo quando parliamo di cultura in una prospettiva trattamentale (a quale cultura ci riferiamo? a quale genere di trattamento?), e per accordarsi almeno su un minimo denominatore comune: la ri-abilitazione delle persone in esecuzione di pena, anche esterna, cioè il recupero o l’acquisizione di abilità assenti o pesantemente carenti e necessarie non tanto per ripagare il danno compiuto infrangendo la legge, quanto per riparare il legame con la comunità che da quel reato è stato interrotto o comunque leso. Quali abilità? Quelle, almeno, che riguardano l’uso dell’italiano come lingua madre, seconda o straniera, così come vengono definite dal Quadro comune europeo di riferimento e conseguentemente certificate. Saper leggere e scrivere, in sintesi estrema: comprendere e farsi comprendere. Qualcosa di cui, peraltro, non c’è bisogno soltanto in galera.

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