“In yoga” di Silvio Bernelli. Un estratto

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Bandito ogni scampolo di fatica, il praticante piega le gambe sul petto. Con lo slancio amorevole che riserverebbe a un bambino bisognoso di rassicurazione dopo un piccolo incidente, uno spavento, le abbraccia. Il gesto di tenerezza si espande grazie all’accorgimento di rilassare caviglie, piedi e viso. L’unico attrito è quello indispensabile a mantenere le ginocchia circondate dai gomiti e le dita delle mani intrecciate. Portare il mento al petto consente di stirare la schiena e aumentare l’effetto vagamente lisergico della posizione. Benvenuto in Pavanamuktasana, la posizione dei venti, si dice il praticante. Ora basta restare fermi per osservare come un fiotto di dolcezza sgorghi da un punto misconosciuto della pancia e si diffonda in arabeschi di benevolenza. Il corpo si lascia avvolgere in una pleura di appagamento. Il praticante è certo di come questa dolcezza contenga il perdono alle malefatte compiute in passato e il proposito di non commetterne di nuove; l’indulgenza che si deve alle proprie debolezze e l’impegno a non farsene tiranneggiare; un protocollo riscritto e aggiornato con la persona nuova e sempre migliorata che si diventa grazie allo yoga. Davanti a un esito così fortunato, il cambiamento della propria indole è un ben misero prezzo da pagare. Soltanto un folle preferirebbe restare attaccato al suo vecchio sé. Ecco perché chi preferisce continuare a essere l’individuo difettoso che è, allo yoga neanche si avvicina, neanche per sbaglio.

Il praticante resta inerte, depositato in una sacca di liquido amniotico, galleggiando in un amore per sé e per il mondo che, letteralmente, lo rapisce. Nulla chiede questo sentimento, se non di essere alloggiato con riconoscenza. La serenità penetra fino ai più infinitesimali interstizi delle carni, delle giunture, delle ossa. Le rotule impacchettate nella pelle ricordano la mobilità e la cedevolezza di una mano in un guanto. Avverte appena la remota possibilità di scorrimento longitudinale dei vari strati che compongono l’epidermide; quello a diretto contatto con la tuta, dove prevale una certa duttilità; quelli interni che paiono incollati tra loro, e quello, nuovamente più malleabile, che avviluppa l’articolazione.

Il benessere si propaga millimetro per millimetro con un andamento che gli è impossibile stabilire se vada verso l’esterno o viceversa, fino alle convessità delle rotule. I polpacci abbandonati sull’asse delle tibie si adagiano sopra i quadricipiti andando a comporre il tocco finale. La postura potrebbe indurlo persino ad appisolarsi, ma il praticante è persuaso che sia solo una fantasia. Potrebbe scattare con tutti i suoi muscoli, se solo ce ne fosse bisogno, con la rapidità di un leopardo. 

Pubblicato per gentile concessione di Compagnia editoriale Aliberti

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