In Guerra con Céline #2

di

Andrea Amerio

Céline trentanovenne nel 1933, a Saint-Malo sulla terrazza di Marie Le Bannier, amante del dottor Follet, padre della ex-moglie Edith, cui anni prima aveva scritto: “preferirei uccidermi anziché vivere con te di continuo”.

L’ovvietà di un luogo comune

Nel giorno del suo 128° compleanno, per quanto l’abbiano già detto e ripetuto tutti per lo meno un miliardo di volte, anch’io da buon ultimo voglio accodarmi con una riflessione sul noto grande problema dell’artista Louis-Ferdinand Céline: il famoso limite “ideologico” che termina in ‘-ismo’ su cui si sono versati i proverbiali fiumi d’inchiostro.

Il buonismo. Sì perché il più anarchico, sanguinario, crudele, nichilista, scatenato e irrefrenabile scrittore francese del Novecento stringi stringi in fondo ha questo solo grande difetto, si sa. È uno scrittore buonista. Un’anima bella. Ed è su questo problema che oggi mi interrogo: il buonismo di Céline: da sempre, la grande zavorra dell’uomo e del nazista.

Un autore “ridiculement surévalué”

Curiosamente la scrittura anti-celiniana di Michael Houellebecq proprio come quella stilisticamente antitetica di Céline pare scaturire con l’innato dono d’indisporre e spiazzare. Così, per esempio, inespressivo come il volto di Buster Keaton, un suo articolo del 2019 apparso sull’«Harper Magazine» titolava “Perché Donald Trump è un buon presidente”. Non so se i consigli sul disinfettante e i fatti di Capitol Hill nel frattempo gli abbiano fatto cambiare idea; in ogni caso cito l’incipit di un altro scritto, sempre raccolto in Interventios 202o:

Dal canto mio, ho sempre considerato le femministe come delle simpatiche idiote, innocue in linea di principio, rese purtroppo pericolose dalla loro disarmante mancanza di lucidità. Così, negli anni ’70, le abbiamo visti lottare per la contraccezione, l’aborto, la libertà sessuale, ecc. quasi come se il “sistema patriarcale” fosse un’invenzione dei maschi cattivi, mentre tutti sanno che l’obiettivo storico dell’uomo era ovviamente quello di scoparsene il più possibile senza doversi mettere una famiglia sulle spalle. Le poverette furono addirittura così ingenue da immaginare che l’amore lesbico, un condimento erotico di cui godono quasi tutti gli eterosessuali adulti, fosse una pericolosa sfida al potere maschile. Infine, e questa era la parte più triste, mostravano un incomprensibile appetito per il mondo professionale e la vita dell’azienda; gli uomini, che da tempo sapevano cosa aspettarsi dalla “libertà” e dalla “realizzazione” offerta dal lavoro, ridacchiarono sommessamente.

Trent’anni dopo l’inizio del femminismo “mainstream”, i risultati sono spaventosi. Non solo le donne sono entrate a frotte nel mondo aziendale, ma fanno il grosso del lavoro (chiunque ha effettivamente lavorato sa dove andare: i dipendenti maschi sono muti, pigri, rissosi, indisciplinati, generalmente incapaci di mettersi al servizio del qualsiasi compito collettivo). In più avendo contemporaneamente il mercato del desiderio esteso notevolmente il proprio impero, le donne devono, dedicarsi al mantenimento del loro “capitale di seduzione”, e talvolta per diversi decenni, spendendo energie e somme folli per un risultato complessivo inconcludente (gli effetti della invecchiamento rimanendo pressoché inevitabile).

Cestinare idee, persone, movimenti o epoche più o meno lunghe e prestigiose è una grande specialità della civiltà francese. Tratto peculiare, tipico e caratterizzante quanto il foie gras. Nessuno liquida in quattro e quattr’otto le glorie nazionali con tanta maestria. Altro che “maestri in salsa piccante”. Direttamente nel water, col culo in fiamme, e giù il Beaujolais! In Francia va così.

Houellebecq su Céline: «Entendons-nous bien, Céline n’est pas sans mérite, il est juste ridiculement surévalué» (cito sempre da Interventions 2020). Un’asserzione che stupisce, per quanto sia ovvio che le preferenze dell’autore al momento vadano più a Graziella di Lamartine che al Viaggio al termine della notte (perché ci troviamo di fronte a una nuova fase nell’opera del celebre scrittore – e la nuova stella polare prevede che: «C’est avec les bons sentiments qu’on fait de la bonne littérature»); e dico stupisce perché mi aspettavo maggiore empatia da parte di chi, quando si trattò di dare lustro letterario a un nome pensò alla nonna, proprio come aveva fatto Louis-Ferdinand Destouches quando decise di prendere il nome di Céline; e si trattava in entrambi i casi d’una forma di “rivalsa”, se così si può dire, nei confronti di genitori inadeguati. Ma Houellebecq lo liquida in due parole: “ha i suoi meriti” ma è “ridicolmente sopravvalutato”.

Gatto d’Europa

Vero. Innegabile. In un epoca eticamente impegnata e luminosa quanto la nostra, sempre pronta a esaltare i valori della correttezza politica e dell’inclusione, dove con le buone o con le cattive viene denazistificato tutto il denazistificabile, che uno scrittore buonista come Céline sia uno scrittore ridicolmente sopravvalutato mi pare cosa ben normale. Così come la volontà di tanti critici e lettori ansiosi di porlo al riparo dai tanti torti giustamente e ingiustamente subiti dal nostro campione cintura nera di politically correct.

Céline è come quel Toshikazu Kawaguchi cui basta un caffè per essere felice anche se fuori si avvicina lo Tzunami. Ma se quel trasgressivo di Kawaguchi si fa di caffeina, per Céline il caffè è già troppo perché odia ogni tipo di droga, e l’alcaloide della caffeina, a conti fatti, lo è. Gli amici lo chiamano “pas de café, pas d’alcool”. Anche quando fu ferito in battaglia rifiutò la morfina per terrore che gli amputassero l’arto mentre si trova incosciente (ricordava cos’era successo a Rimbaud). La cannabis dà “sensazioni poetiche” che sono “false” e solo apparentemente “profonde”; e poi continua: “conosco il bello dell’alcol… la sensazione di potenza… pericolosissima…. la sensazione di forza… è da lì che nascono tutte le retoriche e le prepotenze…. I peggiori di tutte sono gli egoisti della felicità…. gli abbonati di morfina cocaina ed etere…veramente ottusi, selvaggi, mosci, degli epilettici del crimine”.

Insomma a quel moralista di Céline bastano una bella compagna con cui fare l’amore, e le fusa del gatto sulle ginocchia coperte dal pleid.

A proposito di questo felino anche fin troppo famoso – il gatto che Tinou, una figurante algerina del cinema di allora aveva preso per il celebre attore Le Vigan e questi poi aveva affidato allo scrittore –: ma dico io come si fa, dico, tra il 1939-1945 a badare a un gatto in quegli anni impossibili. Con tutte quelle esplosioni, tutta quella fame e quella guerra, quando i gatti se li mangiavano e ai bambini che chiedevano cosa ci fosse nel piatto la mamma rispondeva laconica “coniglio, mangia”? Fosse per me, vorrei l’avessero fatto brillare, quel benedetto gatto d’Europa, oppure gasato con l’iprite, quel Bébert che sotto le bombe riuscì miracolosamente a scampare il destino del coniglio in umido (chissà quanti Bébert a Karkiv a Mariupol, a Odessa, senza la ciotola del kitecat… viziati dal gurmet…). Puro buonismo, ne converrete. E quando attacca Céline è anche peggio del vecchio Baudelaire o del suo arci-nemico Valery Larbaud, con quella loro insopportabile retorica animalista…

Ogni tanto qualche libro sfuggito alla distrazione dei giornalisti lo entusiasmava perché metteva il dito su qualche nervo scoperto del progredito incivilimento dell’uomo, destinato a far saltare il castello di carte della civiltà. Per esempio il tema del dolore animale. Fu così che nel 1933 Céline prese la penna per comunicare a Elena Gosset, tutto il suo entusiasmo per il suo libro intitolato Sotto il segno della frusta, pionieristico saggio del 1933 dedicato al tema della violenza sugli animali. Céline conclude che la specie che ha messo in essere tali pratiche e dispositivi, la civiltà dove “telles lâchetés” ‘queste vigliaccherie’, sont applaudies” ‘sono applaudite’, “doit être brûlée, massacrée, gazée. Et le sera”. “deve essere bruciata, massacrata, gasata”. “E lo sarà”.

Canzonetta volgaruccia

Céline buonista. Certo forse a qualcuno pronto a saltare sulle emorroidi per un momento una volta o l’altra sarà anche potuto sembrar vero il contrario. Qualcuno ci sarà che mi verrà a dire: come si fa a considerare buonista il più disperato e il più nichilista di tutti gli scrittori, colui che non nutre neppure il più piccolo barlume di speranza per una specie che vede condannata e a fine corsa, né per le varie forme di civiltà che essa è andata creando nei secoli, senza portare a nulla che non fosse un conflitto tra razze verso la supremazia eugenetica? Eppure alla fine della fiera son dettagli anche questi. Bagattelle. Il punto è che Céline non ci marcia su questa consapevolezza. Non la volge in proprio favore con una scrollata di spalle e una corsa auto-assolutoria verso il nichilismo del tanto meglio tanto peggio: “fatemi arraffare il mio, divento nazista perché mi fa comodo (o mi pagano)”. No. Lui fischietta il suo motivetto allegro, la “canzonetta volgaruccia” di Dino Campana, senza pensarci. Quel matto anche lui prova a piazzare le “robette da fiera” fatte “di tutto ciò che piacerà”; di resistere a suo modo, militando contro la menzogna del socialismo reale, per la pace, anche sapendo che resistere non serve a niente e il pacifismo porta tra le braccia di Hitler. Ma allora perché cercare testardamente, più di ogni altro, di combattere la guerra, la morte, la malattia, giorno dopo giorno, sul corpo dell’uomo, sui poveracci che come medico incessantemente aiuta a lottare per la loro nuda esistenza di derelitti, ebrei e non ebrei, di ultimi, di disperati? Cosa avrà mai da insegnare questo medico capace di predicare tanto male (che viva il superuomo e venga l’ecatombe per l’umanità derelitta) e razzolare poi così bene (in lotta con abnegazione indefessa perenne e incredibile, temperamento eroico, sensibilità, grazia, tenerezza… ogni giorno, con i piccoli, gli adulti, gli anziani, di qualunque etnia). Persino gli animali, come dicevamo, cui questa specie di Jovanotti fricchettone, pacifista e animalista dedica Rigodon, il suo ultimo suo libro, cui appose la parola fine il giorno della sua morte, ai primi di luglio del 1961? Borges scherzava quando in Finzioni mi pare asserisse che in termini di vendite all’Imitato Christi avrebbe giovato portare la firma di Céline. Anche qui si scherza, ci mancherebbe, ma un filo di meno.

Nazista jusqu’au bout

Ero pronto a postare il pezzo con tutte le sue belle 128 candeline ma proprio prima di finirla pensavo alla svolta buonista di Houellebecq: «c’est avec les bons sentiments qu’on fait de la bonne littérature»… Perfetta antifrasi della poetica di Walter Siti, peraltro. Houellebecq buonista? Non ci casco. Mi pare una provocazione. Visto come gliene ha cantate quattro, alle femmine femministe? E Céline? Anche qui parlare di buonismo è pura provocazione, in verità… e chissà a quali abissi di abiezione e violenza di genere si potrà spingere… Chissà cosa aveva capito, della differenza di genere quel bastardo con il cazzo sempre in tiro che si divertiva a dire “L’arte non è che razza e patria”, come Baudelaire ai tempi del “cuore a nudo”: “Trono e altare, ecco la vera rivoluzione”. Houellebecq per lo meno vive in una democrazia e più il là di tanto non si può spingere. Ma con il sound degli anni trenta, in pieno revival nietzscheiano, quando affermazioni tipo l’uomo è fatto per la guerra, la donna per partorire soldati erano moneta corrente, e la superiorità del maschio fuori discussione… negli anni trenta, quando Céline aveva cinque intrallazzi simultanei – il suo “giro di vacche”, come lo chiamava…. Ho paura… Arriva il Céline vero, non il buonista che mi sono inventato e ovviamente non esiste… oddio… le donne! le donne! Stavolta mi censurano anche qui dove non è mai stato censurato nessuno…

Vi sono dunque tutte le ragioni per sperare che tempi più felici siano vicini al nostro orizzonte. La brutalità sembra toccare la fine del suo regno millenario. Con essa finirà senza dubbio la supremazia negli affari del mondo di cui gli uomini hanno preso il controllo. Sono finiti i tempi selvaggi del passato, tempi guerrieri, tempi fragili in fondo, come tutto ciò che è maschile. Per tutto un tempo lunghissimo la forza dell’uomo, il muscolo, fu uno strumento della potenza e la virilità restò alla base delle nostre società. Ma oggi la forza fisica poca cosa e domani non conterà più nulla. Domani bisognerà essere forti in modo vero e rispettare la vita e questa forza è propria dei medici e soprattutto la maggiore qualità delle donne; ciò che le rende superiori e che ne farà le le protagoniste del domani. Il genio maschile ha realizzato straordinarie costruzioni logiche, meccaniche ma non ha anche distrutto ancora di più in nome dell’ideale. E ora minaccia anche di distruggere la terra stessa, il pianeta in cui vive. È la triste malattia della sua ferocia, del suo genio distorto che non può fare a meno di conquistare e devastare… ma domani sarà ridicolo.

Domani le donne, pazienti, più intelligenti, meno logiche, più mistiche, insomma, più vive, usciranno dal loro silenzio e ci condurranno a loro volta, con più felicità forse, sull’altra strada… e noi le seguiremo restii soltanto proforma, in realtà docili in fondo perché sappiamo bene che non abbiamo più niente da dire. Perché il nostro sistema maschile fondato sull’aggressività è definitivamente sorpassato

È la morale della favola direi e anche abbastanza ovvia, peraltro: l’unico buonista buono è il buonista nazi.

Buon compleanno, Louis. Riposa in pace. Senza esagerare.

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