Il cannocchiale del tenente Dumont

di

Roberto Plevano

Come notava Andrea Zanzotto, visitare o tornare ad alcuni luoghi mette in moto un reciproco contendere della memoria e della presenza; nei luoghi ricchi di lontananza gli spostamenti entro la geografia si accompagnano inevitabilmente ad “altrettanti spostamenti nella storia”.

Questi appunti tornano in mente leggendo il romanzo di Marino Magliani, Il cannocchiale del tenente Dumont, uscito da poco per i raffinati tipi de L’orma editore. Sotto la veste del romanzo storico, intrecciando una trama di ricerche, confini, passaggi, ritorni, Magliani ha scritto un grande racconto di uomini, di terre di mezzo e della sua Liguria.

La narrazione procede per addizione di indizi. Una “notizia” preliminare informa che in seguito all’inquietante numero di defezioni nella spedizione di Napoleone in Egitto, si istituisce una commissione per ricercarne le cause. Il medico Johan Cornelius Zomer (è ‘estate’ in fiammingo) procede a indagare segretamente i movimenti di tre chasseurs dediti al consumo di hashish, convinto che la sostanza, non ancora conosciuta in Europa, sia la ragione delle defezioni.

Magliani costruisce il romanzo con un montaggio di diverse prospettive. Innanzitutto un narratore segue le vicende del personaggio principale, il tenente Gerard Henry Dumont e dei suoi compagni, il colto capitano Philippe Lemoine e il rude soldato basco Bernardo Gilbert Urruti, in fuga dopo la battaglia di Marengo. Si alternano poi lettere che Zomer invia a un collega chirurgo, dispacci scambiati con un suo aiutante sul campo, una cronaca di otto giorni di un redattore sotto mentite spoglie, varie note sparse dai taccuini di Zomer.

Alcuni indizi orientano il lettore alla dimensione figurata del racconto, a cominciare dalla ”fonte” del racconto, l’inseguitore messo alla calcagna dei fuggiaschi, che semina la sua caccia di dispacci rocambolescamente recapitati a Zomer. Costui, dall’illuministico nome di Pangloss, allude ironicamente all’attitudine critica e analitica della cultura del secolo che i fuggiaschi si lasciano alle spalle, ma è una figura tragica, ben più che parodistica. Pangloss, nel suo vano inseguire e fare rapporti, e nella sua sorte, riassume lo scacco della ragione, la definitiva inanità dei lumi di quell’epoca, e dei nostri.

La pluralità prospettica non è un semplice vezzo di stile; riflette il carattere sfuggente del rapporto tra narrazione e lettore, l’esperienza di instabilità e continuo spostamento dello sguardo sul mondo che è la cifra della modernità. Questa condizione accompagna i personaggi del romanzo: ognuno si muove per scopi differenti ed elusivi, quando anche siano allusi, ognuno è in fondo sconosciuto all’altro, comprende in maniera limitata le circostanze in cui vive, le fraintende, si trova a negoziare costantemente i termini di una realtà a cui non sente di appartenere. La coerenza dei personaggi e del racconto è data dalla magistrale costruzione dei caratteri di cui Magliani è capace. Questi uomini provengono da vite diverse, sono temporaneamente associati nell’impresa della diserzione ma oltre a questa non hanno altri legami. Il loro destino li conduce verso un fallimento, evitabile soltanto per un caso fortuito e imprevedibile, che nel raccontare dà luogo a un colpo di scena finale.

Il prologo tiene dietro ai protagonisti in Egitto, in attesa di imbarcarsi per la Francia; siamo a qualche mese prima del colpo di stato del 18 brumaio e sulle navi è palpabile il senso di anticipazione di qualcosa che nessuno ancora conosce. L’estate successiva scendono in Italia. Nel primo scontro con il nemico, a Marengo, i tre vedono la battaglia strapersa alle cinque del pomeriggio. Non attendono l’esito dello scontro (la sconfitta prima della sera si trasformava in vittoria), e si danno alla fuga.

Inizia così un cammino serpeggiante verso il Sud, dalla piana di Marengo attraverso le montagne liguri, un percorso notturno e clandestino – di giorno se ne stanno nascosti negli anfratti del terreno, osservando, attendendo, e poco altro –, denso di pericoli, verso il mare e un dubbioso imbarco per l’ignoto, forse Cipro, forse un paese al di là dell’Atlantico.

Perché disertore non significa mica sbandato, uno sbanda e bene o male si risolve, ma disertare e qualcosa che non finisce, diventa una missione, una carriera.

Da dispersi a disertori, il loro stato viene deciso dalla sorte degli incerti casi della guerra. Ma con l’abbandono delle imprese e dei conflitti, della vita irreggimentata, i tre si ritraggono dalla storia degli uomini, da quelle ragioni di dominio che li hanno condotto in altri paesi e alla guerra, per acquattarsi nel tempo sconfinato della terra sulla quale passano. Si ritirano dagli orizzonti delle comunità, siano i soldati al seguito di Napoleone o le millenarie vite di innumerabili generazioni di contadini al lavoro sui versanti di fieno e ulivi. I fuggiaschi osservano le vite degli altri da lontano, per mezzo di uno dei pochi oggetti dell’equipaggiamento militare che portano con loro, un cannocchiale difettoso:

Quando ha iniziato a difettare, il rumore era poco più di un cenno metallico, una delle viti di ottone cigolava appena, poi l’uso continuo ha finito per provocare un guasto.

A inoltrarsi nella modernità e ad avvicinarsi al mondo di oggi,  “viene a mancare un quadro di riferimento condiviso, l’uomo comincia ad avvertire un senso di smarrimento per la perdita dei valori e del significato stesso della vita” (Romano Luperini); “non c’è più nulla che meriti di essere fatto” (Charles Taylor).  Questa coordinata critica aiuta a mettere in prospettiva il cammino dei personaggi di Magliani, il loro allontanarsi dalla vita irreggimentata dell’esercito e del secolo che si apre. Sono uomini senza qualità: uomini perché assumono piena responsabilità di ogni scelta, senza qualità perché l’esistenza da disertori dà loro una sostanza umana refrattaria alla categorizzazione, e così tanto più vera nelle urgenze del corpo, la fame, la sete, il freddo e il sole che brucia, il sangue e le cicatrici, e la malattia che scandisce i cammini. Le attese (Non succede mai nulla, i falciatori sono a debita distanza e la guardia è giusto un esercizio di dormiveglia), la violenza, infine la morte.

Il lettore segue il procedere della diserzione, si interroga sul senso di essa, e sente che gli sfugge qualcosa di importante, che occorre rincorrere, intuire tra le righe.  Non è il ripiego di uomini che non hanno ambizioni militari, neppure aspirazioni in genere, considerati di poco valore dalle gerarchie. I tre disertori si avviano nel deserto della caduta degli ideali rivoluzionari, segnalata da un arguto gioco di parole (disertori/desertori), inseguiti e mai veramente com-presi dall’aiutante del medico Zomer.

Nel passaggio dalla pianura di Marengo alle alture contese tra Piemonte e Liguria, luoghi impervi ma frequentati e segnati da altre, sconosciute presenze umane, tracce di vecchi passaggi, e ricordati a malapena, a tentativi, dal capitano Lemoine da una precedente missione, i protagonisti oltrepassano una linea geografica e metafisica.

Oltre le colline dovrebbero iniziare le montagne vere, ma nel buio non si capisce dove sono le colline, e hanno camminato tanto che non risalgono più nell’aria neanche gli odori di bruciato, non circola una voce, non un bagliore.

Non c’è soltanto una dimensione spaziale congrua con la stato di disertori; il paesaggio poco frequentato dei versanti montani, dei torrenti, dei rilievi, dei prati e degli uliveti, acquista sostanza e diventa a sua volta protagonista, impone agli uomini tempi e percorsi, sembra parlare in prima persona.

 Non c’è più neve neanche sulle cime. Da giallo marcio l’erba torna a essere quella verde dei nuovi pascoli e in basso si avvita su se stessa la geometrica disposizione dei filari delle vigne. Tutto questo ricorda in qualche modo le terre sull’oceano, meno archi, e manca il mare, ma dev’essere questione ormai di pochi giorni.

Non saranno in realtà pochi i giorni che separano i disertori dal mare. Passando dalla piana ai monti muta la qualità dell’esperienza umana. Il mare è la meta di un’indefinita fuga prospettica, di un nostos topografico che muta ogni giorno: si sa che il mare è prossimo, lo si ricorda, ma è in realtà separato sempre da catene e versanti e non si vede. La prosa di Magliani ha casa nell’aspro entroterra ligure; là acquista spessore (la lezione compresa di Biamonti), perspicuità e preziosità:

Quell’idea opposta di mare, le ondate degli ulivi e la collina crollante, mentre se lì davanti ci fosse un mare vero sarebbe una pianura che sale all’orizzonte.

Ma siamo lontani da una mera descrizione impressionistica di luoghi del cuore. La realtà stessa del terreno su cui i disertori camminano agisce e si trasfigura, si fa risonanza interiore. Il mare in fondo a tutte le storie:

Che c’entra la pupilla col mare, chiedeva lui. La pupilla è il mare intero, Gerard Henri…
La pupilla verticale. Viene sonno.
Finora l’hanno trovato solo quel giorno, da dentro gli ulivi, e non era neanche allora un mare, ma poco più di un livido lontano, vuoto sbiadito sotto il vuoto del cielo ( …)
Un giorno la fonte dirà che il vuoto mediterraneo rimane impresso come un desiderio. Farsi accecare dal mare della Liguria dev’essere come chiudere le ciglia…

Le parole di Magliani si fanno cose vive, in una scrittura che in Italia è unica e si avvicina all’esperienza narrativa del Sudeste di Haroldo Conti.

È una scrittura che inizia sottovoce, da un particolare, attenta a cose minute e apparentemente trascurabili, rese attraverso sorprendenti assonanze e scelte lessicali:

Sul paesaggio di rupi rotte scartate dal giorno o arse dalla luna…

 Le parole evocano trote imprendibili nel torrente, anguille nella cavità della fascina, insetti guizzanti sulla superficie delle pozze. A volte persi su terreni antichi, i tre disertori mantengono identità irriducibili, non fanno banda, società, ognuno chiuso nell’armadio dei ricordi e di confuse intenzioni di riscatto.

La missione di Zomer coincide con la verifica sul campo della sua tesi. Gli oggetti della sua ricerca tuttavia, da buoni fuggitivi, sfuggono all’indagine, il loro cammino imprevedibile sembra refrattario a ogni ipotesi di procedimento razionale. Al fallimento dell’impresa intellettuale subentra – ed è la rovina del ricercatore – l’empatica identificazione con la sua stessa vittima.

I disertori hanno una loro missione, che il romanzo svela a poco a poco attraverso fuggevoli indizi. Magliani, uomo parco di parole, costruisce ogni capoverso con un fondamentale rispetto del lettore, della sua intelligenza e capacità di cogliere la trama da tracce essenziali seminate sul cammino dei fuggiaschi.

I nostoi falliti dei nostri anti-eroi negano ogni epica, nessuno celebrerà le vite dei fuggitivi, vergognose, non esemplari. Il ritorno senza meta fa infine posto a figure che paiono tratte da un fondo archetipico, una madre e un figlio morto, una curatrice che accompagna i morenti alla terra.

Come si fa a dar voce al silenzio? A trovare le parole esatte del silenzio che pure avvolge la maggior parte della nostra vita e la sostiene? Il silenzio che è apertura a infiniti significati? Descrivendo forse le attese, i destini inespressi, un peregrinare privato di meta. 

 Sono le ore tarde, quelle in cui prende lo sconforto, le insidie di un viaggio senza speranze, verso un porto del quale non si sa nulla. Il tempo che forse esiste solo da disertori.

Con Il cannocchiale del tenente Dumont Magliani ha scritto un romanzo storico della Storia che nessun libro contiene, la storia di chi ha deciso di chiamarsi fuori, la storia delle solitudini caparbiamente cercate, la storia di chi intende vivere nascosto, o più banalmente, vivere e basta. Un romanzo che evita furbizie autoriali, trucchi, per mostrarsi qual è all’intelligenza di lettori maturi, stimolarne la sensibilità, mettere in discussione la memoria, lo statuto della realtà della storia raccontata.

Credo che l’hascish nel libro abbia questo significato. Come già detto da Baudelaire ne I paradisi artificiali”, l’hascish provoca “una esasperazione della personalità umana e nello stesso tempo un sentimento vivissimo delle circostanze e degli ambienti”, ed ecco che i nostri personaggi si stagliano come viandanti in una terra che non pare mai essere stata vergine, sempre toccata e lavorata dalle mani di altri uomini che proprio lì hanno lasciato il segno. 

Marino Magliani, Il cannocchiale del tenente Dumont, L’orma editore, 2021.

Questo sito utilizza cookie o tecnologie simili solo per finalità tecniche, come specificato nella cookie policy.