“È tardi!” di Eduardo Savarese

di

Fabrizio Coscia

Leggendo il nuovo libro di Eduardo Savarese È tardi! (Wojtek Edizioni, pagg. 257, euro 16), mi è venuta in mente una delle figure presenti nei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, quella dell’attesa, per l’appunto. «L’attesa è un incantesimo – scrive Barthes – Io ho avuto l’ordine di non muovermi». Una frase che ho sempre associato, nella mia immaginazione, alla bellissima locandina realizzata da Leopoldo Metlicovitz per la Madama Butterfly di Puccini: Cio-Cio-San è di spalle, in kimono, inginocchiata sul tatami davanti a una finestra, e guarda fuori, dove si distingue un bosco autunnale, con un uccello su un ramo. La donna guarda verso l’orizzonte, in attesa, come prigioniera di un incantesimo. Ha avuto l’ordine di non muoversi! Nell’attesa erotica, infatti, tutto è solenne e si perde il senso delle proporzioni: un piccolo ritardo di pochi minuti della persona amata equivale a un mese o un anno. Ma che cosa succede durante questo incantesimo paralizzante? Davvero è tutto fermo, immutabile? A questa domanda cerca di rispondere Savarese nel suo libro, dove le «donne liriche» evocate nel sottotitolo sono le protagoniste delle opere liriche che qui vengono dettagliatamente analizzate. Ed ecco, allora, proprio la pucciniana Cio-Cio-San, ma anche la Violetta della Traviata, Carmen, la Susanna de Le nozze di Figaro, Lucia di Lammermoor, Elettra, Norma. Savarese le mette una dopo l’altra, in rassegna, poiché esse hanno tutte in comune il sentimento e la condizione dell’attesa amorosa. Ma ciascuna di loro, questo sentimento e questa condizione, li vive alla sua maniera. L’attesa di Violetta è quella, vana, della redenzione di Alfredo; quella di Cio-Cio-San è l’attesa della devozione assoluta e incondizionata (che, sempre secondo Barthes, tende ad allucinare colui che è aspettato); Carmen, archetipo della femme fatale, attende la sua morte nel nome della libertà; Susanna, la contessa mozartiana, aspetta il ritorno alla fedeltà coniugale del marito; Lucia ed Elettra trasformano l’attesa in furia omicida, l’una attraverso la follia amorosa, l’altra con la sete di vendetta; mentre Norma è «depositaria, custode, portatrice di ogni attesa in ogni immaginabile accento». Ma queste attese, come spiega Savarese – che è bravissimo nel condurre per mano il lettore dentro le opere che racconta, descrivendo i singoli passaggi drammaturgici e musicali, e facendoci penetrare spesso nell’officina dei compositori e nell’arte delle interpreti, l’amatissima Maria Callas su tutte – mettono le eroine del teatro d’opera in una situazione tutt’altro che passiva. Tutte, infatti, nel tempo dell’attesa, cambiano, evolvono, prendono coscienza di loro stesse. Del resto, come ben sa chi è innamorato o lo è stato, l’attesa non è un semplice esercizio passivo. La stessa etimologia della parola lo spiega. Attendere, tendere «verso» qualcosa (dal latino ad-tendere). Vi è implicita un’idea di tensione, di sforzo, di movimento. Di nuovo Barthes, nella definizione di «attesa»: «Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni)». Savarese non perde mai di vista questa dimensione dinamica del desiderio, questo «tumulto». Anche perché il libro non è solo un viaggio appassionato nel mondo del melodramma, ma è anche un intimo romanzo di formazione: l’autore, infatti, alterna le analisi delle opere al racconto di sé, della sua vita, dei suoi ricordi e della sua educazione sentimentale, così che la scoperta del proprio orientamento sessuale e la compitazione del suo discorso amoroso sono raccontati come se la musica d’opera ne fosse una sorta di colonna sonora. Savarese si denuda di fronte al lettore. Perché? Che cosa vuole dimostrare frapponendo il racconto di sé in prima persona a quello delle opere? Che arte e vita non sono mai separate, ma l’una è parte integrante dell’altra, poiché la compenetra, la nutre, la forgia. Ma soprattutto aiuta a chiarirla e, forse, a giustificarla.

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