Due lettere e un saggio per Ivano Ferrari

di

Paolo Cosci

Estratti da La modulazione dell’urlo (Effigie, 2022).

Livorno, novembre 2013

Carissimo Ferrari, 

volevo scriverle due parole sull’ultima raccolta ma appena ho cominciato mi sono reso conto che era impossibile circoscrivere i pensieri, così ho fatto – come si dice dalle mie parti – un ber cacciucco, scrivendole di seguito tutte quelle riflessioni che negli anni si sono sedimentate dentro di me. Certamente non hanno un carattere analitico, e qua e là potranno sembrarle anche banali. Non sono approfondite quanto meriterebbero, ma tutto quello che segue è frutto di una reazione spontanea, e sono certo che saprà apprezzarlo. Non ci sono legami precisi tra una riflessione e l’altra, non perché non avessi il tempo o la voglia di farlo, ma perché non ne sono in grado.

    Prima di conoscere Macello e La franca sostanza del degrado, ho sempre avvertito una certa insofferenza verso molta della poesia italiana dello scorso secolo e non solo. Poi ho letto le sue prime raccolte ed è stata una rivelazione. Niente che potesse condurre direttamente a un autore in particolare, niente che potesse confondersi col ritmo, con lo stile di qualcun altro. Finalmente un poeta che inglobava, assorbiva tutto questo, un poeta che percorreva, non vie alternative, ma la sua via semplicemente. Dove altri alimentavano precise strategie d’azione, lei sbaragliava. 

    L’ultima poesia «Simile alla carta / insorgi agli occhi fino a farti cenere» mi è parsa la vera e propria sintesi della sua poesia: la forza generatrice della parola; il rapporto mai pacifico col testo né coi rivolgimenti: «la poesia come la rivoluzione non è mai amorosa»; il cortocircuito tra lei e il mondo, la soluzione necessariamente autistica: «brucia la misura per dirsi addio»; il rapporto mai autoreferenziale, mai minimalista: «eppure non manca lo stupore al frastuono del verso / c’è un sottosuolo di voragini e firmamenti / nella cantafera della ghiaia sulla tomba». Tutta la matassa poetica generata non trova soluzione in sé né altrove, semplicemente si sparge, si perde nelle voragini profonde o nelle infinite orbite possibili. 

    Materia e morte sono il binomio trainante della sua poesia, e ancora di più lo è vita-forza: vita in tutte le sue manifestazioni, delicate e oscene, e forza creatrice della parola in grado di scovare e riempire “realtà” altrimenti vuote. È la fisicità la caratteristica peculiare di tutte le sue raccolte, l’insieme di parole fisiche giustapposte le une alle altre generano poi quell’enorme affresco di materia che sono le sue poesie: «Una sberla d’inchiostro sulle reni / le ginocchia lievemente imbesuite / salti, piroette e domande / quell’altro tutto flora e famiglia / congestionato / perché le mani innamorate e un po’ porche / hanno provato a palpare / le sculettanti rotondità della poesia». Oppure «Sillabe che fruttificano» e ancora «Viscere confuse in umile logos / di questa cantilena replicata / che di poesia in poesia ingrassa»; fino ai versi dell’ultima raccolta «Terrore che ho della parola / del suo fogliame duro / del suo tormento a scala verso altrove / pronta a tatuare ombre dentro fossette estreme / a visitarmi il petto con gli aghi delle righe». 

    La materialità di Macello non è diversa – né maggiore né minore – di quella delle altre raccolte; poesie con toni solo apparentemente astratti, specialmente nella Franca sostanza, non si allontanano mai dalla fisicità delle cose, non rinunciano mai allo scontro.

    E poi l’aspetto fino ad ora troppo trascurato delle sue poesie è l’incredibile delicatezza, l’assoluta liricità. «Le occasioni per arretrare sono finite / si corica al tuo fianco l’orizzonte / e il sole non fa più rumore». Mi domando, seriamente, dove si possa trovare qualcosa di meglio!

    È così intimo il ritratto nella lirica a Van Gogh: «Compagno Vincente / senta come suona in italiano “campo di grano con voli di corvi” / basta all’evidente per evadere? / Amo il suo commosso amore per “la sedia di Gauguin ad Arles” / quella candela accesa. / La penso puntuale e avido in prossimità di fogge reiette / mentre sussurra alla luce. / Vivo tra obitori e affinità nel letificante rossore delle ombre / le chiedo la prelazione dell’ornato iconico “Caffè di notte” / che fa rosa la morte dentro la foschia dell’accoglienza».

    Le invio di seguito due poesie molto serie che hanno a che fare con la gravità, e con la storia.

    Le sono debitore per diverse ragioni. Sono la diastole di una contrazione che lei ha generato.

Ogni corpo è una ferita.

Ai margini di cronache qualsiasi

sedimento il vuoto delle costole l’obesità dei cuori.

Impressiona la geometria piana degli eventi:

la storia è asfittica

la Poesia no!

                ***

La libertà è implosione e la rivoluzione un alibi.

Ho una vita ordinaria con qualche scossa d’eccitazione

capita che la mia donna mi ignori che ingoi con reticenza la stanchezza

che sul più bello immagini.

Scrivo senza amore parole assolute raddoppio il mio peso

all’occorrenza triplico.

    Le voglio bene e l’abbraccio forte.

    Paolo

SAGGIO BREVE SULLA POESIA DI IVANO FERRARI

«Nella mia poesia c’è una sorta di macinamento. Io sono una macina che assorbe: non ho grandi punti di riferimento teorici, quindi macino, quindi comprimo. Mi viene in mente il gesto antico del pestare e poi, in base alle esperienze, alle emozioni trarre da quel pestaggio o un sugo buonissimo o una verdura decomposta o una verdura rifiorita». 

    E ancora:

    «La mia poesia parte proprio dalla pesantezza e dalla consapevolezza che tutto comunque resta pesante».

    Così Ivano Ferrai, autore di quattro raccolte (La franca sostanza del degrado, Macello, Rosso epistassi e La morte moglie), definisce la sua poesia. Nessuno fino ad oggi ha preso in seria considerazione il valore di questo poeta, e quando è avvenuto, lo si è fatto specialmente per l’opera, forse, più famosa: Macello. Da qui l’esigenza di sollevare alcune questioni che l’intera opera di Ferrari propone. 

    È con Rosso epistassi e soprattutto con La morte moglie che il poeta raggiunge una piena maturità poetica. 

    Spiega Ferrari:

    «Secondo me la poesia non ha mai parlato a nessuno. Mi spiego, la poesia è un suscitare emozioni che nascono a loro volta da altre. È un linguaggio astratto distruttivo del linguaggio. Un linguaggio che dice per percezioni. Riuscire a parlare proprio attraverso questa emozione è il compito del poeta che in realtà parla con se stesso quando scrive. Ovvio che se poi trovi chi ti capisce, chi ti segue meglio. Niente fascino ma percezione della fatica di chi scrive e di chi legge. L’unione o sintesi di due fatiche senza fascino alcuno, ripeto. La poesia non è ispirazione ma lavoro giornaliero. A me un’emozione suscita una parola, io la prendo e la isolo, e così senza sostegno, sola, deve essere affiancata ad altre e altre ancora».

    È la materia il minimo comun denominatore nella poesia di Ferrari: i grumi linguistici si stratificano, si condensano al punto tale da poter essere considerati una mancanza di stile, la parola regredisce, diventa pura immagine. È una poesia piena e densa. La parola sta per quello che significa non rimanda a una dimensione differente, e tuttavia amplifica, nel contesto in cui è inserita, l’oggetto che definisce. Ciò che è rappresentato è racchiuso in sé, non rinvia ad altro all’infuori di sé ma si dilata, si altera, acquista mobilità propria, consistenza.  Così il lettore può vedere, toccare l’“oggetto poetante”. Qualche esempio:

Saper dire bestialmente della flotta

di mani che pronunciano il gesto

dall’ultima carezza al mare gelido della pelle

– acqua di rosa, acqua di rosa – 

                ***

Prima o poi 

i luoghi scompariranno

ritorneranno indietro i nomi

il teatro delle ombre sostituirà la luce

concave e convesse sfinitezze

ci invaderanno le guance di merda e di granito

e il fiato della storia esalerà dei consommé.

    Il lettore è proiettato in un mondo attraverso cui l’immaginazione lo guida, le singole parole si trasformano in immagini, regrediscono a uno stadio primordiale: «via il primo strato, il secondo, il terzo / ciò che resta è una cosa inutile di migliaia di anni fa». Prima delle parole c’erano le immagini, con il lavoro di scarto e di stritolamento, tornano le immagini. E con la poesia, l’oggetto del suo canto torna a uno stadio primo: «hanno spiegato che c’è una massa / che comprime il tragico / questa massa ti fa regredire al semplice / aiutami a sgombrare merda dal cuore».

    La parola è scavata, vangata, ciò che resta dopo un processo di digestione verbale gocciola sulla pagina bianca, le parole si spalmano: è una colata di parole disposte ad ampie campiture. Occupano la pagina bianca come fossero colori ad olio disposti su una tavolozza. 

    Il ritmo è intestino, mai reso attraverso i metri della tradizione ma interno a ogni singola sillaba. L’accumulo enorme di parole non è mai replica coatta né semplice espansione orizzontale, piuttosto un’immersione profonda che non lascia niente inespresso: è il coraggio e l’onestà di esprimere tutto quanto senza facili consolazioni. È una poesia plastica e visionaria senza rifermenti alla nostra tradizione recente. Non è un linguaggio né d’imitazione né di tradizione.

    La poesia di Ferrari è ascendente – specialmente nell’ultima raccolta: nella sezione La morte moglie –, si inabissa in tutte quante le raccolte, e infine compie un movimento orizzontale, piano, che attraversa la storia e l’uomo in tutta la loro tristezza e umanità in raccolte come Rosso epistassi e La franca sostanza del degrado. Tuttavia Ferrari fin dall’esordio (mi riferisco a quello del 1995, anno in cui pubblica presso Einaudi, nell’antologia Nuovi poeti italiani 4, buona parte delle poesie poi contenute in Macello) cerca la poesia in basso, tra la carne che, prossima alla morte, pulsa; che si ribella. Qualche esempio:

Ficco le dita nelle radici dure

del toro decapitato

cerco intimità e pensiero

in quel vigore moncato

quando potrei avere colme 

le mani di mammelle. 

                ***

La carne morta rivive

nella sua grande miseria

col vento che riporta gli odori

ad un ordine sparso.

La carne morta è ricamata 

da quelle sinuose presenze

che gli altri chiamano larve.

                ***

Tutti in fila

nudi

appena sporchi di letame

attendono la perfezione 

balbettando proteste

il più intraprendente sodomizza il compagno davanti

l’urlo che si alza è solo un anticipo

la rivoltella a pressione frena lo scandalo

ci sono vacche olandesi

torelli

e qualche cavallo.

    Le atmosfere della Morte moglie sono già presenti, se pur in fase embrionale, nell’ultima sezione della Franca sostanza, Smaltitoio. È morte in azione, è una morte che accompagna il poeta, e potrebbe essere, come riconosce Moresco, il titolo, La morte moglie, generale di tutta l’opera di Ferrari. Non è una riflessione sulla morte, cara a molta letteratura in versi, ma una fenomenologia della morte: è la morte spolpata da dentro, dalla prospettiva di chi «subisce animali e cose».

    In effetti le raccolte fino ad ora pubblicate potrebbero costituire l’ossatura di un unico grande libro in versi; d’altronde non mancano rimandi continui tra una raccolta e l’altra, e se, come specifica Antonio Moresco, dopo il dolore e il degrado del primo libro, il mattatoio animale del secondo, la macelleria della Storia moderna nel terzo, con La morte moglie tutto questo viene sublimato, la morte è sublimata, è compagna di vita.

    Dal dolore animale Ferrari scova la condizione umana, la presa di coscienza obbliga a surrogare la memoria dell’invenzione fulminea di un verso: nella merda, tra le viscere il poeta cerca bellezza, la bellezza della poesia. La storia di Macello non riguarda solo i confini del mattatoio…

    Poesia agente…

    Ogni raccolta si apre con una poesia che potremmo definire un proemio senza dedica, una breve didascalia o più una protasi proemiale, di quello che di pagina in pagina incontreremo.

    Così avviene in Bestie imperfette:

Questo 

è il pianeta dei bagliori

scoppia e si estende con chiarezza

convulsa

il lampo dello sparo.

    Siamo, in questa prima sezione de La morte moglie, nei confini aperti del mattatoio che aveva fatto da sfondo al poemetto Macello. In Macello non c’è nessuna poesia introduttiva ma un crescendo continuo, si passa dallo: «stanzino in fondo allo spogliatoio / è detto delle seghe», alla seconda poesia in prima persona: «La mia pelle ripulita e triste / il cuore glabro / il colorito bluastro / bene, io sono quello che stabilisce / la commestibilità / dei vostri miasmatici cibi». Poi il poeta passa in rassegna il bestiario pronto alla macellazione: «Tutti in fila / nudi / appena sporchi di letame / attendono la perfezione / balbettando proteste / il più intraprendente sodomizza il compagno davanti / l’urlo che si alza è solo un anticipo / la rivoltella a pressione frena lo scandalo / ci sono vacche olandesi / torelli / e qualche cavallo».

    In Rosso epistassi il linguaggio si fa più denso, a tratti ermetico. Anche qua una poesia di non semplice interpretazione apre gli orizzonti dell’intera raccolta:

Da un passato all’altro la cosa umana

dialoga con il limbo che l’indaga

rimortis

e le sommosse, le delicature di ore tarde

e intifadami travestito da rètina, rapina rovine

mi titolerei così.

    E il pronome dell’ultimo verso potremmo forse riferirlo al libro che prende parola e presenta se stesso.

    La franca sostanza del degrado è la raccolta più composita, articolata in ben nove sezioni è aperta da un’epigrafe, che è più che un proemio, è una premessa su cui tutto quanto il libro si struttura.

Livorno, 15 dicembre 2018

Carissimo Ivano Ferrari,

martedì scorso sono stato alla presentazione de Il grido di Antonio Moresco a Pisa, sono arrivato una mezzoretta prima e Antonio era già lì, così abbiamo passato qualche minuto insieme e abbiamo parlato del libro, di Giovanni Giovannetti e soprattutto di lei. Mi ha detto che è stato molto male e che anche adesso sta poco bene. Per telefono ho paura di romperle le scatole quindi ho deciso di scriverle per salutarla e per cercare di trasmetterle il bene e la stima che provo. Fino a qualche anno fa ci sentivamo con una certa frequenza e per me telefonarle e aggiornarla sulla mia vita e sulle mie letture era un momento che mi separava da tutto il resto… Quando ho concluso il mio libro, le cose sono cambiate, almeno per me, e ci siamo sentiti sempre meno. Ma in questi anni ho pensato molto a lei, e nell’ultimo anno mi sono dedicato in maniera assidua alla sua poesia. Lo scorso anno sono uscite diverse raccolte antologiche di poesia contemporanea, raccolte in cui si cerca di individuare un canone; in nessuna si accennava alla sua poesia. Considerato il livello della sua poesia, col pensiero e le immagini che l’attraversano, mi sono convinto una volta per tutte di scrivere qualcosa che la riguardasse, di dimostrare come la sua poesia abbia raggiunto tra i risultati migliori nel panorama contemporaneo e che non sia semplice poesia marginalizzata a volte (mi pare) volutamente marginalizzata. Ho cominciato a scrivere di getto, mandando a memoria molti dei suoi testi, poi ho fatto qualche ricerca e con qualche difficoltà sono riuscito a recuperare una tesi del 2006 di Laura Santoni, grazie alla sua controrelatrice, la professoressa Giuliana Petrucci. Non ho mai conosciuto Laura Santoni perché come saprà qualche anno fa è morta, giovanissima. La sua tesi è eccellente almeno in relazione ai suoi due primi libri; Laura ha avuto una capacità di analisi e di affondo incredibile. Ha individuato i tratti più incisivi della sua poesia e sono convinto che oggi avrebbe potuto scriverne in maniera ancora più importante. Quindi almeno per l’analisi di Macello e della Franca sostanza del degrado partirò proprio dall’analisi di Laura, anche perché non sarei in grado di scriverne una migliore. 

    Il prossimo maggio ci sarà a Livorno un incontro di poesia contemporanea al quale parteciperà anche Domenico Brancale. Mi piacerebbe molto averla qua e se le sembrerà possibile ne sarò felicissimo. Non voglio disturbarla oltre, l’abbraccio e la stringo fortissimo.

 Paolo

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