Di natali umili e rinunce

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Se sei stato a Napoli, ed è qui che sono rientrato da Venezia, la confusione di certi drappi, certe stoffe, certi odori, sembra sia l’anticamera di un abbandono, e non sei tu che vieni abbandonato da donne troppo belle che ridono coprendosi la bocca dietro un ventaglio di pizzo, no, sei tu che ti abbandoni, lo senti nelle mani che si distendono mentre da una poltrona indichi il calice vuoto a un cameriere e la tua vita è una parentesi e nient’altro. 

Napoli ti riconsegna te stesso un po’ più servo di quanto fossi al tuo arrivo, ti piega con crudeltà asciutta e allora te ne vai in giro tra i vicoli, intimorito da questa città che sembra voglia darti tutto, fama, denaro e amore, ma senza fretta. 

Mi mandarono qui a completare i miei studi da cantante castrato. Ero molto giovane e ovunque andassi (a lezione, a casa di una famiglia che mi ospitava, nelle stanze del mio maestro) mi sentivo come il parente povero che s’accoglie con svogliata benevolenza. Oggi che sono libero dagli obblighi verso il mio benefattore, oggi che mi guadagno la vita comodamente, che canto e la mia voce la riconoscono, l’acclamano (fonte com’è d’ogni mia ricchezza di tasca e di letto), che al café c’è sempre chi mi stringe la mano richiamando l’attenzione degli altri avventori e urla Maestro; oggi che potrei essere un visitatore di questa città come lo sono stato di Roma, Londra, Torino, Genova e Firenze, posti dove a portarmi è la mia professione, a Napoli sono sì un visitatore ma a condurmi qui, più che la mia voce, è il passato.

Delle persone come me, di natali umili e rinunce, si pensa che siano sempre alla ricerca del riscatto, che lavorino per quel momento d’emancipazione assoluta (quasi si costruisse la trama di una storia d’amore non corrisposto dove sei tu che devi corteggiare e blandire, a tratti ingannare, la vita che sogni affinché anche lei trovi il modo di amarti e la vostra relazione diventi di pubblico dominio); quelli come me (non che ce ne siano tanti), non hanno una vita finché non posseggono la vita che fanno; poi, una volta arrivato il successo, scompare il passato, ma resta una crudeltà strisciante che di tanto in tanto s’insinua e ti dice che volendo potresti ripagare il torto subìto, e la vedi già la mano, la tua mano nervosa forte e sottile che stringe dita a dita il collo di quel che un tempo fu nostro nemico, ed è una gioia infantile che accompagna il sonno, ogni sera, questo sogno di un riscatto che non s’è ancora compiuto nell’intimo. 

Ecco il mio riscatto, ora che sono tornato ad attraversare Piazza del Plebiscito facendo quello che facevo allora: misurarmi la voce dando colpetti leggeri alla gola. Per me, lo so, è una forma di condanna. A tratti preferirei non essere nessuno solo per non essere il figlio del povero contadino che sono stato e di cui Napoli ha chiara memoria. Vorrei poter mentire quando qualcuno fa un riferimento alla mia formazione, rispondere con fastidio “Guardi che si sbaglia, nacqui di famiglia nobile con altrettanto nobile destino” (perché se pure sembra ti sia stata accordata una fiducia tale, che la città tutta abbia scommesso e investito su di te e ora gioisca all’idea di aver vinto, resti quello che sei grazie a ciò che ti è stato concesso).

Li guardo uno a uno i volti della platea, mentre mi esibisco. A volte incrocio lo sguardo di una giovane donna accompagnata e le faccio dono di un guizzo, mi prendo la libertà d’abusare del mio talento come se fosse un suo, un nostro segreto, guardo i volti incipriati e soddisfatti della mia voce e a Napoli (non a Parigi, a Londra, a Venezia o a Firenze), cantare è ogni volta l’obbligo a riscattare un debito mai estinto. 

Abuso molto dei libretti, avverto sempre una certa resistenza a dire ciò che penso (anche questo è un aspetto del mio carattere dovuto alla formazione severa imposta a chi pur non avendo nulla se non un blando talento, venivano concessi lo studio e l’arte), come se non possedessi la libertà delle mie parole;  allora sono Tirsi e sono in scena, ritrovo Clori innamorata e col violoncello ad accompagnarmi intono: 

Pur ti riveggio ancor
più bella a mio favor,
e meno altera;
chi mai credea così,
che si placasse
un dì così Clori severa.
Pur ti riveggio…

Il pubblico s’incanta. Pur ti riveggio ancor (l’osservo, e dalla gola risale in bocca un sapore asprigno), più bella a mio favor  (uomini e donne chiudono le palpebre leggere) e meno altera (già qualcuno dondola la testa), chi mai credea così, che si placasse un dì così Clori severa (qua e là qualche sagoma in penombra è già pronta ad applaudire, fermata appena in tempo da chi le sta vicino). 

Pur ti riveggio, ma la mia espressione è severa: se il pubblico potesse sospettare l’odio che vive in questo canto (perché se io non fossi io e non provassi imbarazzo per questo ritorno a Napoli; di più, provassi fastidio per questi applausi, potrei essere semplicemente l’uomo innamorato dell’opera che non è sollevato dall’amore di Clori ma la odia proprio ora che lo ama perché avrebbe potuto imparare ad amarlo prima e risparmiargli le sue sofferenze). 

Non sono un uomo felice del successo che ha ottenuto, e conosco la ragione che mi ha spinto a mentire a Carasale mentre mi accordava i trecento ducati di compenso. Lo capisco chiaramente, adesso, mentre canto e le mura del San Bartolomeo sembra vogliano seppellirmi. Riconosco la sagoma dell’impresario, lo scintillio degli occhi. Mi osserva come avesse inteso fino in fondo l’imbroglio e cercasse di fermarmi in qualche modo. Un istinto infantile ci porta ad essere troppo benevoli verso chi ha la nostra stessa storia (siamo così incapaci di consolarci da soli che cerchiamo qualcuno a cui poter lenire le nostre pene).

Quando Carasale mi ha consegnato la nota di pagamento ho insistito con lo sguardo sulle sue dita da maniscalco. Ha le mani non ancora guarite dalle cicatrici del lavoro, mi ricordano quelle di mio padre (il mio padre biologico, non il mio benefattore), e sento raddoppiarsi la fatica di tornare alla mia casa natale di Bitonto.

Quello che sono diventato (la mia professione, l’essere un uomo di mondo e di successo) rende inospitali la mia terra e la mia famiglia. Mi vergogno quando penso ai miei genitori, mi pento del mio tradimento, dell’estraneità a cui la vita ci ha costretti, chiaro com’è, soprattutto in provincia, che ci si riconosce solo nella stessa miseria.

Quando gli ho visto le mani, pensando a mio padre, alla mia infanzia, mi sono trattenuto dal sorridergli (c’è una complicità che rifiuto, infastidito come sono dal mio stesso racconto). Mi ha chiesto se fossi felice del mio successo, se fossi orgoglioso di questa mia Napoli che mi partoriva due volte. Gli avrei risposto sinceramente se i suoi modi e le sue curiosità così banali non mi avessero tolto ogni audacia. Quell’uomo non mi somiglia nella stessa misura in cui non somiglio più a mio padre. I miei tratti ingentiliti, la mia voce soave, il mio corpo, gli abiti che indosso, il nome con cui mi hanno ribattezzato in modo che onorassi il mio secondo padre non dato ma incontrato, tutto nega la mia prima nascita, supera la vita che mi spettava e seppellisce la mia stirpe nella mia persona.

No, non sono felice del mio successo quando sono a Napoli perché tutto ciò che chiedo a questa città è la libertà di non esserne figlio ma uomo di passaggio.

Camminando solo su via Toledo – Carasale s’è offerto di accompagnarmi ma ho rifiutato, convinto che me lo avrebbe chiesto ancora se fossi felice del mio successo, aspettandosi una risposta meno evasiva della prima, –  mi ritrovo a pensare alla giovane donna che si prende cura, con il resto della famiglia, del mio appartamento. 

Si materializzano la sua nuca sottile (e nemmeno ricordo di avergliela mai guardata, ma a volte capita che la memoria lavori per conto suo e ci riproponga particolari fotografati qua e là), i capelli più corti che non si tengono nello chignon, l’attaccatura di una catenina sottilissima.

Non mi piace corteggiare le donne della servitù, e cerco sempre di non incrociarne lo sguardo, infatti le riconosco da dettagli e non dalla figura intera, della cameriera le manine un po’ grassottelle da bambina, la domestica dai fianchi e da adesso, la più piccola che si occupa di cambiare la biancheria dalla sua nuca gentile e sottile. Preferisco le nobildonne, meglio se sposate, il volto incipriato che odora di ore di preparativi per piccole comparse in un salotto in festa.  

Dopo ogni spettacolo, a Venezia, mi recavo alla Giudecca per vedere una donna in una minuscola stanza affittata a poco prezzo, le cantavo Pur ti riveggio e mentre prestavo la voce lei si divertiva a pavoneggiarsi nei panni di una Clori troppo disinibita.

Cercava sempre di trattenermi, “Canta ancora” mi diceva, e io cantavo un altro paio di strofe, “E canta ancora”, e io l’accontentavo con un recitativo e quando oramai vestito e in ordine mi avviavo verso la porta si metteva in piedi sul letto e indicandomi urlava: “Traditore!”, e ricadeva tra le lenzuola ridendo.

L’ultima volta che l’ho vista – quando le ho detto che stavo partendo per Napoli e che non c’è da far affidamento su un cantante d’opera costretto per professione a viaggiare molto e a far spesso vita solitaria, – mi ha risposto: “Non puoi”, e io sorridendole con un certo paternalismo (mi sembra di averle accarezzato la testa, come per placare il capriccio di una bambina) le ho risposto che dovevo.

Clori (la chiamo così per scherzo e abitudine e perché è un po’ anche la sua storia quella della Nemica d’amore fatta amante) ha preso un quaderno per metà intonso da sotto il materasso e me l’ha mostrato: “Leggi”, indicandomi pagina dopo pagina le date, “Non puoi andartene perché mi ami, vedi?, quella domenica mi hai chiamato amore e poi mi hai cantato un’intera aria; il martedì successivo mi hai baciato quattro volte prima di andar via e leggi ancora, dopo due settimane mi hai regalato un fazzoletto di seta con le tue iniziali; e non mi hai abbracciato più forte del solito l’altrieri prima di congedarti?”.

Sfogliavo le pagine ordinate come se da sole – prima ancora di ogni atto descritto – rappresentassero un’accusa d’amore. E pur provando un certo affetto per Clori, pur sentendo un certo dispiacere (quello che si avverte prima di ogni viaggio; lontano da me, invece, la disperazione dell’amante costretto all’addio, che per me è motivo di sollievo), mi sembrava di assistere all’ultimo atto di una tragedia con l’eroina che muore e nessuno rimprovera alla trama la crudeltà di quel destino.

Non voglio più dormire con le lenzuola di lino, ho detto poco dopo alla giovane cameriera trascinata nella mia stanza a ora tarda con la scusa di aver versato un calice di vino rosso sul letto (mi capita di portarmi un bicchiere quelle sere in cui sento che il sonno tarderà ad arrivare e mi rileggo gli spartiti più e più volte sperando di provocare la stanchezza, sfinirmi e non di rado quando il sonno sopraggiunge mi ritrova ancora con un calice mezzo pieno in mano e quindi mi addormento tra le carte e il vino versato); lei ha annuito, è uscita dalla stanza e quando è rientrata con della biancheria pulita in grembo, le ho visto meglio il viso.

L’ho guardata rifare il letto (non ho lasciato la camera come sarebbe stato opportuno fare in modo che fossero chiare le mie intenzioni), le ho fissato i seni coperti e la bocca e siccome non mi è parso cogliere dalla sua espressione alcun terrore solo un accenno di imbarazzo, mi sono avvicinato a lei e le ho scoperto il collo. 

All’opera si ripetono più e più volte le stesse strofe, si ha come l’impressione che i personaggi debbano mettere alla prova non il proprio coraggio ma la propria convinzione, ripetono per prendere tempo, ripetono perché le stesse parole, nel giro di qualche secondo, visto che altrove sta già capitando qualcosa di nefasto che a breve invaderà la scena, cambiano di senso. 

Se avessi ripetuto una seconda volta soltanto: “Mi spoglio”, avrei avuto, magari, l’occasione di notare l’espressione beffarda con cui la ragazza accompagnava il suo: “Sì, potete”. Se invece d’iniziare a sfilarmi la giacca e poi il panciotto e già allentare i lacci della camicia l’avessi sfidata con lo sguardo almeno per capire se era ciò che voleva. Invece un cantante d’opera non ha fatto l’unica cosa che è utile fare anche fuori dalla scena: ripetere le parole “Mi spoglio” e andare avanti di conseguenza.

Ero nudo quando si è seduta sul letto e mi ha guardato mentre decidevo da che lato starle accanto. Mi ha guardato con una sorta di lampo maligno negli occhi e poi si è portata le mani alla bocca in modo che non capissi che stava per ridere. Mi sono fatto più vicino (imbarazzo di gioventù, mi son detto) e per metterla a suo agio mi sono alzato (incredibile quanto ci rendiamo ridicoli quando esibiamo le nostre convinzioni) e ho intonato:

Sposa, non mi conosci
Madre, tu non m’ascolti
Cieli che feci mai!

E mentre le stavo di fronte in piedi, in postura da canto e nudo, s’è portata le mani per un secondo agli occhi e poi allo stomaco, forse per timore che potesse vomitare la cena mentre rideva e rideva sempre più forte, senza preoccuparsi di me, della mia voce e neppure dell’apparenza. 

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