La tigre assenza

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Nella primavera scorsa è uscito La tigre assenza di Livio Borriello.
Di lui ho letto varie cose, forse tutto quel che ha pubblicato da quando lo conosco. Del primo, Mica me (Orientexpress, 2008), se ne è parlato molto. Era un libro pieno di luci e ombre, pieno di frasi spiazzanti per descrivere l’incessante trasformazione del mondo. Dopo diversi anni, nell’estate del 2021, Borriello torna in librerie occupandosi ancora una volta del mondo e delle sue trasformazioni. Ma Esercizi per accorgersi del mondo va (Transeuropa 2021) più a fondo: il racconto diventa una lunga e articolata riflessione filosofica a tratti enigmatica e respingente, a tratti chiarificatrice, intensa, illuminante.

E poi, solo qualche mese fa ecco un tributo a Cristina Campo: La tigre assenza. nove epicedi e un canto nuziale (Terre blu, 2022), il libro tra tutti che apprezzo di più. Perché? Perché pur piacendomi la scrittura asciutta e senza fronzoli che caratterizza lo scrittore, sono le sue parole morbide, quelle che si muovono in una inusuale armonia a toccarmi il cuore, a muovermi i sentimenti. E La tigre assenza  è, forse senza neppure l’intenzione, un libro commovente. le parole, pensate una a una restituiscono emozioni, ravvivano mondi scoloriti, rinsaldano legami. Il dolore è il filo rosso che attraversa tutti e nove i canti funebri. E anche il conclusivo canto nuziale.

Qui pubblico l’epicedio che Livio Borriello dedica al padre. Avrei anche voluto pubblicare gli altri: quello dedicato ai suoi amici, alla zia Amalia… ma poi ho pensato che è meglio leggerli dal libro quei canti lì e buttare un occhio, mentre li si legge, alle foto che accompagnano il racconto in forma poetica. 
La copertina è infine realizzata dalla fotografa Gabriella Giordano: storica amica dello scrittore. Per certi versi anche lei protagonista di queste storie bellissime che si intrecciano anche con la sua storia.
[S.G.]

Papà

papà credeva poco alle medicine orientali e alternative, ma le sue terapie erano perfettamente zen.
– papà, se mi tocco qua mi fa male.
– e non ti toccare.
le sue cure: sole, acqua, riposo, e la mano calda.
la mano calda consiste nell’appoggiare la mano sulla parte dolorante finchè non sviluppa calore.

se avevamo un doloretto, la diagnosi era immancabilmente: male di gioventù. passati i trentacinque, quarant’anni, diventò senza soluzione di continuità: male di vecchiaia. se chiedevamo ulteriori spiegazioni la ripeteva in tono fra oracolare e derisorio, alzando gli occhi al cielo per sottolinearne la misteriosità.

i suoi principi terapeutici: per stare in buona salute, lontano dai medici e dalle medicine.
le malattie sono di 2 tipi: quelle che guariscono da sole anche senza medicine, e quelle che non guariscono nemmeno con le medicine.

ma non era fanatico e a volte aggiungeva: quando servono, le medicine vanno prese e vanno prese bene e a orario, specie gli antibiotici.

a volte ci consigliava una pomata, ma se in casa non c’era ci dava il dentifricio. alle nostre rimostranze rispondeva: non te ne ‘ncarrecà (non te ne incaricare). di ogni processo coglieva l’essenziale: in questo caso l’azione fisica rispetto a quella chimica. in generale, era un fisiologo.

non te ne ‘ncarrecà era un’altra delle sue formule magiche e inappellabili. andava bene per cucinare il pesce in un certo modo, per prendere una decisione importante al laboratorio o per evitare una discussione inutile. stava a metà fra “non ti preoccupare” e “lascia fare a me”, formula dell’intima convinzione, ma anche dell’impossibile. tutto poteva risolversi, per vie imprevedibili e apparentemente illogiche, dopo che l’aveva pronunciata, e quasi sempre funzionava.

la prima volta che l’ho sognato dopo la morte, voleva friggere il pesce in chiesa. alle mie assennate obiezioni rispondeva: non te ne ‘ncarrecà.
(il prete infine si convinceva che l’idea era fattibile e anche vagamente evangelica)

papà ci salvava sempre, anche quando ci cacciava nei peggiori pasticci, e noi non ce ne dovevamo incaricare.

papà era sempre se stesso, ma proprio in quanto se stesso rispettava gli altri, quali altri se stessi. questo valeva però per tutto ciò che riteneva essenziale e sostanziale: poi lo sentivi come niente dire a un vecchio che era vecchio, mandare a quel paese, anzi per la verità a fanculo, burocrati, funzionari troppo solerti e persone che rappresentassero un qualsiasi potere – si vantava sempre di avere indirizzato a quell’uso il futuro ministro mancino – ma anche scocciatori petulanti.

diceva che era anarchico. per la verità spesso era anarcoide più che anarchico, e da uomo concreto aveva anche un rapporto realistico col denaro. ne aveva guadagnato un bel po’ in gioventù, ma si può dire quasi suo malgrado: ai suoi tempi questo poteva accadere. curava molti pazienti gratis, e negli ultimi anni mandava ogni mese quasi mezza pensione a bambini poveri e associazioni benefiche. la casa era invasa da bollettini. per un periodo il suo migliore amico era carminuccio il barbiere anarchico che lo aveva fatto abbonare a umanità nova. una volta dovetti convincere la digos che non era pericoloso e non finanziava il terrorismo.

era se stesso, non si rappresentava, non sapeva che fossero l’affettazione e la posa. questo gli dava un fascino speciale, discreto e penetrante, che era tutt’uno con la sua bellezza fisica.

era consapevole e orgoglioso di essere molto bello, ma di esserlo senza la minima intenzione e il minimo sforzo. era assolutamente trasandato, se gli regalavamo una camicia reclamava subito le “zenzole e sbrenzole mie”, aveva il piede valgo e deforme ma non sapeva cosa fosse averne il complesso, in vecchiaia si diceva talvolta “faccio schifo”, ma era lo schifo per quel segno della morte che è il decadimento del corpo. era troppo onesto con se stesso, troppo lucido, troppo intelligente per non sapere che moriamo, e che cominciamo a morire già da vivi.

negli ultimi anni leggeva solo libri di religione, su cristo o budda. subito dopo chiudeva il libro e sentenziava, fra deluso o amareggiato: tutte fesserie. poi però ne chiedeva un altro, sperando che in quell’altro potesse scoprire che c’era un dio o che non moriamo. ma non si convinceva. non so di cosa fosse convinto nell’ultimo attimo, che avesse trovato nell’ultimo libro. per me è stato importante che è morto col mio libro sul letto, insieme ad altri sulla religione.

agiamo o siamo agiti? esistiamo o siamo esistiti? è impossibile dirlo. papà aveva vissuto a 16 anni la più terribile tragedia che possa vivere un uomo, quel che si chiama un incidente fatale, una tragica concatenazione. quel che è certo è che ciascuno di noi, nel momento in cui rivendica la propria individualità, si assume anche la responsabilità di tutti gli eventi che gli fanno capo, di cui in un senso sovrapersonale si potrebbe invece considerare solo uno strumento passivo, un oggetto o una vittima.

ed è certo dunque che quella tragedia era stato il perno della sua psicologia, e della sua vita. altre grandi tragedie aveva poi vissuto, ma quando la personalità si era in qualche modo rafforzata.

il bisogno di fare del bene, come risarcimento a sé e al mondo di questo male, era alla base di ogni sua scelta.

fare il medico, era per lui un modo di fare il bene, di guarire il male profondo. il suo sogno di pace, di calma, che spiegava anche il suo amore per il mare, la sua sensibilità alle sofferenze umane, i suoi idealismi politici, tutto si spiegava in questi termini.

la sua umanità. questa parola è stata la prima e l’ultima che ho associato a lui. papà sentiva l’uomo come un uomo, non vedeva altro nell’uomo che l’uomo. odiava il potere, le armi, la prevaricazione, perché diminuiscono l’uomo.

papà era adorato in particolare dalle donne. non solo le sue donne. forse ancor più le giovani donne, che vedevano in lui un padre e un mancato amante, il padre che avrebbe potuto essere un amante. tutte le “nuore” lo adoravano, non solo le “fidanzate” mie e di gigio, ma le mogli di nipoti e amici… stefania a. che gli ha lasciato un bellissimo ricordo su facebook, alfonsina, monica, e poi rosanna, m. “piccola” e m. ematologa, e le altre…. a tutte queste giovani “nuore” quando nominavano “zio renato” brillavano gli occhi, erano tutte innamorate di lui… e poi le sorelle, le nipoti, e le cognate, e zia amalia, l’indimenticabile zia amalia… il mito “zio renato” era stato creato da renato e orlando, i nipoti prediletti, e poi si era rafforzato in alcuni viaggi epici con quel gruppo di ragazzi che chiamava la sua ciurma, e che lo chiamavano “il capitano”… era un capitano, un capitano buono… un po’ anche il capitano di whitman e dell’attimo fuggente, il capitano che insegna a ribellarsi all’ingiustizia e ad essere liberi e uguali… capitano, oh mio capitano…

il rapporto con noi figli era più profondo, più duraturo, più viscerale, più fatale, negli ultimi anni diceva sempre che l’unica cosa che gli restava eravamo noi figli, ma era anche meno visibile, meno rilevato….

papà sapeva bene che la vita di ogni uomo vale la vita di ogni altro, che ogni uomo è nella sua essenza identico a ogni altro, che una stessa essenza circola fra tutti gli uomini. certo, a volte come tutti lo dimenticava, a volte non lo sapeva, una parte di sé non lo sapeva e era sensibile a differenze superficiali e inautentiche (era molto sensibile per esempio ai segni del “successo”, ammirava ingenuamente il personaggio “famoso”).

nel libretto che scrisse negli ultimi anni, aveva attribuito un senso, riconosciuto una funzione, trovato il filo della sua vita nell’aver fatto del bene, nei momenti in cui aveva fatto del bene: la ragazza che aveva tentato il suicidio per amore, col sangue laccato, che aveva “resuscitato” con una trasfusione, il paziente soffocato che aveva salvato incidendo la trachea e infilandogli come cannula d’urgenza un maccherone (ah… i protocolli moderni… dritto in galera sarebbe finito oggi… fra lo starnazzamento di qualche giornale), cecile, la bambina dell’ospedale di parigi che si faceva imboccare solo da lui, il bambino che aveva fatto sorridere giocando a cucù setté nell’orfanatrofio di calcutta…

ma questo riconoscere l’uomo nell’uomo non era un comportamento, o una posa, o un tratto episodico, era qualcosa che costituiva intimamente il suo modo di essere e ne costituiva anzi il fascino, in ogni gesto, in ogni parola. aveva la passione di essere uomo fra gli uomini.

quando papà chiedeva a un passante sulla spiaggia di aiutarlo a tirare su la barca, gli si rivolgeva come un uomo che è se stesso si rivolge a un altro uomo che è se stesso, insieme senza formalismi e senza prevaricazione, senza timidezza e senza arroganza. il suo gesto era compatto, perché l’essere e l’agire coincidevano.

si rivolgeva al primo che passava, non lo “sceglieva”… “giovane…” chiamava – magari era un vecchio sussiegoso, o qualche personaggio importante.. – e gli faceva cenno di avvicinarsi. gli brillavano gli occhi e aveva un’aria un po’ sfottente. l’altro sapeva da quello sguardo che lo riconosceva come uomo, e che come ora chiedeva aiuto avrebbe potuto ricambiarlo in ogni occasione.

dopo ringraziava fugacemente, senza frasi inutili e di circostanza… il suo rapporto non era mai di circostanza, perché non si stabiliva nelle circostanze, ma nel più vasto perimetro della comune umanità.

quando io, o quasi tutti, chiediamo aiuto a un passante, il nostro gesto è corrotto innanzitutto da un’intenzione: abbiamo intenzione di chiamare il passante, e ciò pregiudica il gesto, lo sfasa dal tempo universale, che contiene anche il tempo e il gesto dell’altro. poi presumiamo qualcosa di noi e del passante. e questa presunzione rende inautentico il rapporto, che non sarà più fra un uomo e un uomo, ma fra ciò che riteniamo e presumiamo l’uno dell’altro. infine siamo aspettati dall’altro, anticipati e indotti dalla sua aspettativa. questa attesa suppone già una separazione, una divisione. papà non aveva bisogno di adeguarsi all’aspettativa dell’altro (come fa l’amante ansioso o il politico che lancia un sondaggio) perché non supponeva una discontinuità fra sé e l’altro, lo sentiva, grazie alla sua “umanità”, come il luogo provvisorio e accidentale in cui circolava la stessa sostanza umana.

cosa lo induceva a passare, nei 2 mesi estivi, 5 o 6 ore a pescare gli squisiti pesci pettini sulla sua barchetta, quasi sempre da solo, in mezzo alla distesa scintillante, calma e infinita? ecco… trovava soprattutto queste 3 cose: il calore del sole che è la vita, la dissoluzione nell’elemento primordiale e continuo, indifferenziato, che è l’acqua, e il risolversi, il comporsi, il placarsi di ogni conflitto e tensione nell’orizzontalità, nella calma.

stamattina ‘o mare è ‘na tavola – era una delle frasi che lo entusiasmavano, una frase che pronunciava con gli occhi scintillanti e la voce squillante.

ho recuperato un suo vecchio borsello the bridge… un regalo, naturalmente… papà non solo non aveva la minima idea del valore dei borselli the bridge, ma in generale del fatto che esistessero dei “brand”, delle marche di prestigio… gli sembrava pratico, e lo usava sulla barca per tenerci qualche documento scambiato, qualche lenza, e all’occorrenza anche il pesce. a volte, col caldo, un inspiegabile sentore di pesce si alza dal mio elegante borsello… … io faccio finta di niente, ma so che è papà… è papà che mi parla nella sua lingua…

alla tv guardava solo le partite e i film western… ma poi in vecchiaia augias, gad lerner (che chiamava gader, o garler) e i programmi di storia. divi e divetti non li conosceva né riconosceva… le bionde le scambiava tutte per la carrà. quest’è carrà… evèro – provava a indovinare, ma magari era la cuccarini, la carlucci o persino il cantante dei cugini di campagna

ammirava sì la nobiltà del cavallo, e si affezionava ai cani, ma l’animale che amava di più è il più umile, quello che mangia tutto, e vaga nel mondo con aria ignara, sperduta e innocente, spinto dai bisogni più elementari: la gallina. negli ultimi tempi ne aveva poche, e le chiamava per nome. la più bella la chiamava brigitta, in omaggio a brigitte bardot. o meglio, in omaggio di brigitte bardot alla gallina.

qualcuno diceva che in vecchiaia si era depresso. in realtà, a me sembrava che per una persona che aveva vissuto pienamente e intensamente come lui, era segno di salute mentale non voler accettare di vivere in maniera dimezzata. ha un senso vivere finché si può essere se stessi, e questo essere se stessi si può tradurre in un agire.

vedeva poi ormai troppo da vicino il momento della fine. negli ultimissimi tempi, la sera prima di addormentarsi, chiusa la porta, parlava da solo, e salutava il mondo: ciao bastone, ciao letto, ciao cristo, ciao dilshan (il badante) e altri nomi… dall’altra camera non distinguevo bene le parole. gli ultimi anni sono stati un lungo, straziante o a volte più rassegnato e malinconico, saluto al mondo.

negli ultimi tempi ripeteva sempre: so’ inutile… ora alzando le spalle e ridacchiando, ora più mesto. una volta che non ne potevo più, gli dissi: papà… tu dici che sei inutile… ma qua senza la tua pensione la famiglia non va avanti… fu l’unica volta che le mie argomentazioni, spesso sofistiche e macchinose, riuscirono a rincuorarlo. di colpo gli brillarono gli occhi. papà vedeva sempre le cose solide che stanno sotto le parole.

papà era forte. anche a 91 anni, emanava forza e tranquillità, anche quando sapeva di dover morire. aveva avuto la forza di fare tante cose, aveva sempre la forza di guardare la realtà. ora la sua stanza vuota sembra il fosso vuoto di una quercia sradicata.

in effetti ormai da 10, forse 20 anni, non c’era fra noi alcun rapporto reale. da che non agiva (in senso fisico o intellettuale) più, e non potevamo fare nulla insieme (né discutere, era quasi del tutto sordo). da quel momento, ero io che agivo intorno a lui, sempre alla stessa distanza. era diventato il perno inerte intorno a cui ruotava la mia vita.

avessi almeno un figlio, qualcosa che lo prolunghi attraverso me… ora non sarei più figlio di un padre, ma sarei padre di un figlio…. finché esistono un padre e un figlio, un padre e dei figli, esiste in qualche modo una continuità che dà senso all’esistere – anche se è una continuità all’inverso, una continuità nel passato. ma ora che non ci sono più che dei figli senza figli, destinati a loro volta a non esserci più, l’abisso del tempo che passa mi appare ancora più vuoto e incolmabile.

in un certo senso, mi sembra, poiché è accaduto il passato, non potrà accadere neanche il futuro: poiché il passato è scomparso, scomparirà anche il futuro. mettere al mondo e nel mondo un figlio, occupare un po’ di nulla con un figlio, fare quella cosa nuova che è un figlio, sarebbe stato l’unico modo di compensare questa sparizione incessante – forse insieme allo scrivere.

io non ho avuto un figlio a cui cantare la barca dei sogni, con cui giocare a padre giove e ercole, a cui raccontare cento volte il gol di anastasi alla finale degli europei, con cui perdermi nella bufera come abbiamo fatto una volta a lago laceno, e ritrovare miracolosamente l’albergo, e a cui trasmettere, insieme ai geni e ai caratteri fisici tutto un mondo di valori e convinzioni che, per noi esseri umani fatti di lingua e cultura, vale forse più dei geni…

negli ultimi anni il suo atteggiamento nei confronti della morte e della malattia era ispirato a un episodio riguardante suo padre, mio nonno orlando, che raccontava spesso. nei suoi ultimi mesi mio nonno, malato, dormiva nel letto con il figlio, giovane medico, di cui era orgoglioso e che gli infondeva un senso di sicurezza. una mattina papà svegliandosi sentì una mano bagnata di sangue: il padre aveva avuto un’emorragia notturna. allarmato e sorpreso gli chiese perché non lo aveva svegliato. la stupefacente risposta di mio nonno fu questa: durmivi accussì bello…

questo episodio oggi potrebbe sembrare incredibile, addirittura assurdo o perseguibile da una di quelle leggi eubiotiche e utilitaristiche che ci impongono la sopravvivenza e il benessere a tutti i costi. ma invece contiene un insegnamento vertiginoso, indimenticabile che è anche difficile spiegare ma che ci procura un brivido fin nelle ossa… forse quello di un rispetto arcano e arcaico del fato e della morte, o quello del senso misterioso dell’amore paterno, di quel senso protettivo nei confronti di chi è più giovane che va al di là della logica e delle leggi umane, e che però attribuisce all’esistenza un senso più profondo, e la riporta al flusso eterno, inarrestabile e universale delle cose.

un’istantanea di qualche anno fa:

Ecco mio padre

te’, t’ eccoti n’ uovo frisco

‘A piglia’ i viermi, però

Raccoglie dieci lire per terra

(è la proposta di uno scambio: lui mi dava l’uovo fresco e io gli dovevo cercare i vermi per pescare. il calcolo era però del tutto naturale, era come gli scambi fisiologici che fanno funzionare il mondo… e era uno scambio senza valorizzazione, in cui ogni cosa valeva come ogni altra cosa: così la 10 lire per terra valeva quanto una qualsiasi grossa somma)

forse il problema è che io non capisco la vita, e dunque non capisco la morte. oppure è proprio la prodigiosità della vita che fa sembrare enigmatica una cosa semplicissima.

questa bellissima fra le tante foto con mamma: 4 febbraio 1958, martedì, napoli – scritto sul verso con la grafia fluida e elegante di mamma. questa bellezza del mondo se ne è andata. questo istante, è precipitato in un luogo remoto, inaccessibile e irrecuperabile.

io guardo? li guardo? io guardo, ma il mio sguardo non trova nulla, solo l’immagine. passa dall’altra parte come attraverso il fumo, sbatte sullo sfondo – che esiste ancora da qualche parte, quel muretto, quella strada. l’oggetto di questo sguardo non è più nessuno. o meglio, lo sguardo si arresta all’immagine, la retina si appaga dell’immagine, ma la coscienza temporale dentro di me non trova nulla, è questo precipitare nel nulla dalla supposizione illusoria dell’immagine che produce dolore.

ciao papà

non ci senti bene?

però un po’ ci senti

il tempo non esiste

La tigre assenza. nove epicedi e un canto nuziale
di Livio Borriello
Terre Blu 2022
brossura filo refe, pagine 150, formato 14,2×23,0
ISBN: 978-88-99377-28-1

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