Com’è amara la gloria di Paolin

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Conobbi Demetrio Paolin nel 2010, assistendo a una conferenza su Male e Letteratura tenuta a Noventa Vicentina.
Lui parlò con Giorgio Vasta, Giuseppe Genna e Adone Brandalise. Ricordo che raccontò una gita liceale presso un campo di concentramento e che gli tornava in mente il verde del prato che calpestava approssimandosi al lager e l’orrore che il verde così terso nascondeva, accarezzando fresco e leggero la suola delle sue scarpe da tennis.
Mi colpì la sua partecipazione emotiva a un evento – l’Olocausto – che con ogni probabilità è il più scandaloso di sempre ma che io sento remoto, cui non penso mai; invece quel mio coetaneo vibrava al solo parlarne e ciò mi colpì assai. Non potevo saperlo ma il breve preambolo con cui aprì l’intervento racchiudeva tutto il suo immaginario che è (non mi sovviene termine più adatto) temibile, un intrico di spine.
Sono trascorsi sei anni, Paolin pubblica oggi Conforme alla gloria (Voland editore) e chiude un cerchio, mi pare. Gli scrittori arrivano a un certo punto – attorno ai quarant’anni, attorno alla terza o quarta opera – in cui sentono di dover produrre un libro che si metta lì a rappresentarli per sempre; non è detto che sia il loro migliore ma è il più ambizioso, quello che svetta sul resto della produzione come una cima impervia e arcana; ebbene Paolin ha compiuto il passo.

In Conforme alla gloria prendono forma in maniera definita le sue ossessioni: lo sterminio nazista, il senso di colpa di esistere dopo e/o assieme al male, la cecità della nostra sopravvivenza e della nostra morte, il predominio doloroso del male sul bene, la sfiducia in Dio – una sfiducia che trascende il neutro ateismo e giunge a sfiorare l’invettiva e la bestemmia; e poi (le ossessioni sinora elencate potrebbero fondersi in una sola) regna una fortissima corporeità, una fortissima percezione delle viscere, delle ossa, delle unghie, del sangue; specie del sangue.
Flannery O’Connor – cattolica fino al midollo – parlava della buona narrativa come d’un riuscito esercizio d’incarnazione ma Paolin va oltre. Per Paolin il corpo è il tempio sacro e profano, di continuo riaffermato e di continuo violato, del nostro esistere e del senso che gli attribuiamo. Tutto per Paolin si consuma nel corpo, incluso ciò che altri denominerebbero anima o spirito. Il corpo è un carcere che serra la coscienza, rimanendone però impregnato: il dramma leopardiano – perché non siamo nati mucche, la cui massima preoccupazione è brucare? – si situa pressappoco là; ma pure Cristo aleggia, respinto sempre un attimo prima che possa entrare, eterno malinconico spettro.

Non a caso al centro della sua storia Paolin pianta un corpo, anzi una pelle, una duplice pelle (“La pelle è il decreto della bellezza, che ci rende unici. Altrimenti siamo una foresta di rovi”): la pelle tatuata del quadro che il nazista Heinrich Vollmer si procurò a Mathausen durante la seconda guerra mondiale e poi la pelle di Ana, giovane donna che Enea, scampato proprio a Mathausen, ricopre di tatuaggi e appende nuda a un gancio per un’esibizione di body art. Quando il figlio di Heinrich, Rudolph, oppresso dal quadro non meno che dalla figura paterna (strisciante, molesta, infetta ombra), rivelerà ad Ana che Enea, l’uomo che l’ha dipinta da cima a fondo, è l’autore dei tatuaggi dell’orribile quadro, la ragazza non reggerà all’idea di portare sulla carne una colpa enorme, esagerata. Quest’idea non possiede alcun fondamento razionale, ma forse lo sterminio nazista ne aveva? Ana cede e con lei affogheranno Rudolph, che sull’altare del quadro ha sacrificato moglie e figlio, ed Enea stesso, il cui talento risulta incapace d’esorcizzare l’inferno patito da giovane (e qui rammentiamo Celan, straordinario poeta i cui genitori morirono nei lager, ridotto all’afonia prima del tuffo estremo nella Senna).
Non si salva nessuno, in Conforme alla gloria.

Nelle opere di Paolin non si salva quasi mai nessuno, resta solo un pugno di cenere che sfugge fra le dita. Primo Levi, torinese come Paolin e verso il quale Paolin nutre autentico affetto, e che appariva già nel memorabile pamphlet di due anni orsono Non fate troppi pettegolezzi (Liberaria editore) occhieggia qui e lì, via di mezzo fra nume tutelare della sofferenza irredimibile e indice puntato contro un’intera civiltà. E troviamo pure richiami alla tragedia della Thyssen, la fabbrica torinese distrutta nel 2007 da un rogo in cui perirono sette operai. I richiami storici e la vastità temporale della vicenda, che corre dal 1945 ai giorni nostri, avvicina Paolin a un autore formidabile, in Italia meno noto di ciò che merita: l’americano William Vollmann. Paolin al pari di Vollmann coltiva l’ambizione di raccontare il mondo attraverso il male, perlomeno il mondo moderno; anzi forse di raccontare l’uomo, il suo nocciolo di tenebra, la sua enigmatica e contorta identità. Chi è davvero l’uomo? Hitler o Gandhi? Stalin o San Francesco? Pol Pot o Martin Luther King? Satana o Gesù? E Dio, se c’è, dove si nasconde mentre quaggiù s’abbattono tragedie ineffabili? Il caso invece è presentissimo e ci domina dall’alto, tetro burattinaio il cui volto di pietra si perde fra le nuvole, ghignando: “Io sono vivo perché qualcuno è morto al posto mio. Io non sono vivo per meriti, ma per caso. Sono qui perché nel giorno della selezione io ero accanto a uno più magro di me, a cui avevo rubato nei giorni precedenti il pane che ci davano. Le sue costole erano più sporgenti, la sua pelle più sottile e il suo sguardo più vitreo del mio. Così alla selezione lui è andato a destra e io a sinistra. Lui è finito nel camino e io no. E io sono qui e lui disperso nel cielo.”

Una breve nota sulla lingua: scabra, precisa, tagliente, soprattutto “corporea” o “corporale”, adatta insomma al temperamento e alla poetica di Paolin. Ecco alcuni esempi: “Ognuno di loro conosce la vita dell’altro, come un cibo appena masticato passato di becco in becco.”
Oppure: “Più forte di ogni cosa è il sangue.”
Oppure: “Mio padre è morto e i suoi occhi sono diventati delle pietruzze nere come quelle che si trovano nella sabbia sul lungomare.”
Oppure: “Li abbiamo usurpati del loro spazio fisico, ameremo donne e uomini che loro avrebbero dovuto amare. Diventeremo simulacri vuoti e chiunque, se ci guarderà bene, vedrà il fumo della vanità.”
Che lezione ricaviamo alla fin fine da un’opera tanto dura? Nessuna, com’è giusto che sia, tranne il monito a guardare con maggiore severità e acume a noi stessi, alla nostra coscienza, all’effettività della nostra libertà interiore e al prezzo che essa ci costa. Il mondo appare frutto d’uno sbaglio, d’un inciampo; e qualunque ne sia la causa – il Peccato Originale nella visione di Paolin s’incastra bene col caso o col fato, un paradosso che non toglie bensì aggiunge potenza – ci tocca per forza prenderne atto. “Ognuno di noi conduce una vita di sopravvivenza fino al giorno della propria morte. Un giorno, oramai maturi e senza significato, cadremo dall’albero e saremo poltiglia.”

E’ Enea, il tragico e maledetto autore dei tatuaggi, a parlare; forse Demetrio Paolin non la pensa così, non del tutto; e sapete perché? Perché scrive, scrive di come a Enea l’arte non basti più – e così facendo dà l’ultima parola all’arte, si rifiuta di tacere, si ribella all’assenza di ribellione. Ma forse sbaglio, forse interpreto a mio capriccio. La scrittura del resto, come la vita, è un mistero. Conforme alla gloria ci provoca però – e direi quasi ci obbliga – a decidere da che parte stare e ad agire di conseguenza. In tal senso è un libro morale d’altezza rara, una cupa vertigine.

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