Ci sarà, dicono, un piano di investimenti storici. Non possono non includere anche la scuola. Al momento sembra che si investirà soprattutto sulla digitalizzazione cioè sulla scuola digitale, un non-luogo, una simulazione di scuola. Chi l’ha sperimentato in questi mesi (scuola, università, smart working) lo sa. Su cosa si dovrebbe investire allora? Sulla riduzione degli alunni per classe, si dice, e sono d’accordo. Se soltanto si realizzasse questo, molte cose potrebbero cambiare. Scrivo "potrebbero" perché il cambiamento delle condizioni materiali non corrisponde necessariamente a un rinnovamento reale della scuola.
Eppure sono anni che si parla di questo, teorizzando nuove modalità di insegnamento e premiando chi le applica rovesciando le classi senza che però il prodotto cambi. Innovazione, digitalizzazione e aziendalizzazione sono andate avanti di pari passo e nel lessico scolastico sono comparsi termini come "utente" che è la traduzione del termine studente che è un modo di declinare la vita di un bambino o di un ragazzo per alcune ore al giorno dentro uno spazio ristretto che generalmente fa(ceva) riferimento a un programma e non ai suoi bisogni fondamentali.
Pochi giorni fa, parlando con alcuni ragazzi durante il loro sciopero (il primo sciopero studentesco dell’era digitale, durato alcuni giorni e organizzato da ragazze e ragazzi che nascono da una "tabula rasa": prima di loro c’è un vuoto di anni e devono reiventarsi tutto, ricominciare daccapo e lo fanno per avere una voce, per non essere indifferenti, perché vogliono confrontarsi e non lasciarsi più raccontare dagli altri), pochi giorni fa – dicevo – mi hanno risposto che la scuola dovrebbe essere un luogo in cui possono esprimere le loro potenzialità, inascoltate e costantemente rimosse. Del resto il massimo che offriamo noi adulti è tanto paternalismo e maternalismo, tanta retorica e indifferenza ma soprattutto la nostra tristezza e quel senso di impotenza che abbiamo interiorizzato e che trasmettiamo come educazione civica al mutismo, al servilismo, all’assoggettamento.
Ora da quel loro bisogno di esprimere le proprie energie fisiche e mentali, la propria creatività, è nata l’immaginazione di una scuola con spazi circolari e senza cattedre, luoghi di confronto al chiuso e all’aperto, giardini e una biblioteca dove poter leggere e studiare insieme e aiutarsi reciprocamente; un’ora ogni mattino dedicata al corpo, all’incontro, al respiro, per camminare, fare sport dolcemente o stare in giardino in silenzio e prepararsi all’incontro tra di loro, coi loro insegnanti e con la conoscenza. Una scuola con laboratori della scienza, della parola e della creatività e un luogo in cui mangiare insieme per diventare davvero compagni e compagne di scuola. A quel punto mi sono accorto, ascoltandoli, che quella loro scuola non finiva mai e coincideva con tutta la loro vita, perché non avevano fretta di tornare a casa, perché era diventata la loro casa e soddisfaceva i bisogni del loro corpo, della loro mente e del loro spirito. Li guardavo e vedevo che erano felici soltanto a immaginarlo.