Alternative

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Da molto tempo ormai Laio e Giocasta non tornavano più a casa alla stessa ora. I loro orari di lavoro erano troppo diversi.

Giocasta, dopo qualche anno d’indecisione, aveva messo sul piatto la sua laurea in legge ed era finita a fare la civilista in uno studio legale alla periferia di Tebe, dove il suo capo, che non amava gli straordinari, apriva la baracca alle otto del mattino e la chiudeva alle sei. Alle sette Giocasta rientrava regolarmente negli appartamenti suoi e del marito all’interno della Cadmea – la rocca di Tebe dove alloggiavano i sovrani – con la valigetta appesa alla mano destra e i tacchi che le torturavano i piedi; a volte trovava Laio, a volte no.

Laio dal canto suo non aveva orari. La quantità di documentazione che doveva leggere e firmare variava ogni giorno, senza dire degli interminabili colloqui con il Primo Ministro, le riunioni con il suo Consiglio Privato, le bacchettate sulle dita del segretario personale, le mezze parole di un parlamentare o di una spia, le angosciose mezz’ore a esaminarsi la coscienza nel buio di un pomeriggio di novembre. Parte dei suoi compiti avrebbe potuto dividerli con Giocasta, ma sua moglie aveva alla fine deciso di rinunciare al ruolo di Regina Consorte della monarchia tebana (‘Fossi Regnante, passi: ma Consorte…’, aveva detto), e quindi i doveri costituzionali toccavano tutti a lui. Preso regolarmente in mezzo nei bisticci tra gli aristocratici della Camera Alta, che lo volevano reazionario e forcaiolo, e i borghesi e i lavoratori della Camera Bassa, che avrebbero voluto ridurlo a un pupazzo o disfarsene, Laio aveva spesso la tentazione di sciogliere il Parlamento e mandare tutti al diavolo; ma poi ricordava la promessa fatta a Làbdaco, che a sua volta l’aveva fatta ad Anfione, e lui a Nitteo, su su fino a Cadmo: si regna costituzionalmente. In ogni caso, tornava alla Cadmea quando riusciva, e mai due giorni di fila alla stessa ora.

Una sera Laio rientrò a casa verso le otto e mezza, con un buco nello stomaco e i nervi a pezzi. Uscì dalla macchina nel parcheggio della Cadmea, attraversò il giardino, svicolò nel portone d’ingresso, prese l’ascensore per il piano attico ed entrò nell’anticamera con il solo, ossessivo proposito di farsi un litro di tisana zenzero e limone. Un altro al posto suo avrebbe pensato a un drink; ma Laio era praticamente astemio. Buttò giacca e valigetta sul divano del salotto, si allentò la cravatta e passò in cucina, dando per scontato che, se a quell’ora Giocasta non era in salotto con un Manhattan, allora sicuramente non era in casa. Riempì d’acqua il pentolino e cominciò a pelare la scorza del limone. Gli suonò proprio in quel momento il cellulare, che mise in viva voce.

– Che c’è, Demofoonte?

Era il suo segretario personale.

– Maestà, scusi se la disturbo a quest’ora ma abbiamo un problema.

– Un altro.

– Sì. La solita lingua lunga al palazzo di Echìone mi ha fatto sapere, neanche cinque minuti fa, che Leucònoe non sposa più Polidoro, ma Licurgo.

– Che non so chi sia.

– Non partecipa granché alla vita politica, almeno non l’ha fatto fino ad ora. È il figlio più giovane di Scitalce.

– Scusa…? Scitalce il capo della casata di Iperènore?

– Lui, Maestà.

– Cos’aveva Polidoro che non andava?

– La mia fonte non sa dirlo.

– Siamo nei guai, Demofoonte. Lo sai, questo.

– La situazione ha preso una piega imprevista.

Laio tagliava lo zenzero e intanto imprecava col suo segretario. Erano mesi che contava sull’alleanza matrimoniale – le famiglie nobili di Tebe ragionavano ancora così – tra la casa di Echione e quella di Pelòro, tradizionalmente le più moderate, perché assicurassero la maggioranza riformista alla Camera Alta, mettendo la museruola alla casa di Iperènore, che ultimamente – con Scitalce in Parlamento – aveva dato più fastidio che altro. Se gli Echionidi si mettevano con gli Iperenoridi, insomma con la destra, e la Camera Alta finiva in pasto ai conservatori, Laio si trovava con la prospettiva di un autunno terrificante. A settembre si dovevano rifare gli accordi sindacali. Anche il minimo slittamento nei rapporti di forza in Parlamento si sarebbe ripercosso sulle trattative, e Tebe si sarebbe riempita di cortei e scioperi. Il Primo Ministro si sarebbe dimesso – elezioni anticipate. Oppure – come nel peggiore dei suoi incubi – il Parlamento avrebbe demandato a lui di nominare un successore, visto l’articolo eccetera e il comma eccetera, e allora le parti in causa se lo sarebbero mangiato come una coscia di pollo cercando di buttargli tra le braccia ciascuna il suo candidato.

Demofoonte parlava, Laio borbottava, e l’acqua nel pentolino bolliva. Dove ho messo il filtro?, si chiese Laio a un certo punto. (Riservato com’era, non voleva domestici nei suoi appartamenti, se non per pulire e fare il bucato quando lui non c’era; aperitivi, cene e spuntini di mezzanotte li gestiva in solitudine). Ma lo trovò in fretta, nascosto dietro il bimby. Era ancora lì che guardava la tisana bollire, e implorava Demofoonte di riparlarne magari domani, quando Giocasta uscì non vista dalla loro camera da letto, livida come pasta di castagne, e con passo da sonnambula andò a sedersi sul divano, le mani in grembo. Aveva lasciato aperta la porta della camera, come una fessura sulle tenebre.

Laio si accorse con la coda dell’occhio che sua moglie era in salotto mentre filtrava la tisana nella teiera. Agguantò una presina, e teiera alla mano la raggiunse.

– Ciao. Non ti avevo mica sentito. Da quanto sei qui?

La baciò sulla guancia. Lei abbozzò un sorriso e una carezza.

– Da un paio d’ore.

– Sei tornata a casa prima?

– Sì, ho chiesto un permesso. Non mi sentivo bene.

– Oibò. Che hai?

– Un po’ di nausea.

– Quindi niente Manhattan stasera?

Giocasta lo guardò con due occhi tondi. Laio intanto si sedette e si versò una tazza.

– Vuoi?, chiese.

– No, ti ringrazio.

– Spero che, a parte la nausea, oggi sia stata una giornata decente.

– Mah. Siamo incastrati da mesi con questi due che devono divorziare ma in realtà non sono sicuri. Gilippo e Anattoria, non so se ti ricordi.

– Quei due contadini rifatti che hanno la villa sul lago Copaide.

– Eh.

– Ma credevo che oggi ci fosse la firma.

– See, magari. Adesso è saltato fuori che lei ha trasferito in un conto estero a nome del fratello una parte dei suoi beni per evitare di doverli dividere. Lui potrebbe procedere per vie legali, cioè noi, ma farfuglia. Il capo pensa che sia una tattica per convincerla a non mollarlo.

– Non puoi staccare un po’ da questi due? Non avevi in ballo quella storia del testamento invalidato?

– Macché, l’ho dovuta passare al mio stagista. Il capo dice che questi due imbecilli sono troppo ricchi per servirli male e che più allungano il brodo loro, più ore fatturiamo noi.

Un’altra parola e le sarebbe tremata la voce. Così ne approfittò per chiedere:

– Tu piuttosto. Ti ho sentito ululare prima. Chi era, Demofoonte?

E poi non dovette far altro che stare zitta e annuire mentre Laio tirava giù moccoli per il matrimonio mancato, l’alleanza saltata non si capisce perché né percome, e Scitalce Iperenoride pronto a trasformare la Camera Alta in una fortezza reazionaria. Nella foga, siccome la tisana era ancora troppo calda, Laio svicolò in cucina – sempre parlando – e fece a sua moglie il solito Manhattan, per cui lei andava ghiotta. Gli occhi tondi di cui sopra li aveva interpretati come un ‘sì ma fai tu che io non ne ho voglia’. Laio esaurì l’argomento proprio mentre faceva cadere nel bicchiere la ciliegia al maraschino.

Rientrò in salotto.

– Ti ho annoiata abbastanza. Ecco il tuo Manhattan. 

Lo appoggiò sul tavolino, si sedette nuovamente e prese il primo sorso di tisana. Quando abbassò la tazza si rese conto che Giocasta non si era mossa dal divano e lo guardava con gli occhi ancora più tondi e liquidi di prima.

– Tesoro, che c’è che non va?

– Sono incinta.

Laio rimase a fissare il vuoto. Cercò a tentoni la teiera che aveva appoggiato sul tavolino. Ma gli tremava la mano e non riuscì a sollevarla.

– Dove abbiamo sbagliato?, chiese.

– Ti si è rotto il preservativo, rispose lei.

– Impossibile. 

– Possibilissimo. È lattice, non è diamante. Può succedere che sia difettoso, o che si rompa se uno è troppo entusiasta.

– Impossibile.

– Laio, ti prego. Non c’è altra spiegazione. 

– E quando sarebbe successo?

– Un mese fa. Sono in ritardo di un paio di settimane e, se ti ricordi, tu quella sera eri brillo.

– Non ero brillo per niente.

– Laio.

– Ok, un po’ sì.

– A dirla tutta eri brillo come è brillo un astemio a cui fai bere due Moscow Mule uno dopo l’altro a stomaco vuoto. Cioè ubriaco fradicio. Secondo me hai fatto un movimento storto e si è rotto qualcosa. O si è sfilato.

– Me lo ricorderei.

– Eri ubriaco. E io avevo altro a cui pensare. Né io né te eravamo in condizione di farci caso.

All’inizio della loro relazione, Giocasta prendeva la pillola, un po’ perché ancora s’incontrava – di rado – con un suo ex, un po’ per tenere a bada un ciclo molto doloroso e irregolare. Dopo qualche anno che lei e Laio stavano insieme, però, cominciò ad accusare sintomi – dolori fortissimi al seno, emicrania e fluttuazioni della libido – che dipendevano dalla pillola e che, secondo il suo ginecologo, potevano solo peggiorare. D’accordo con lui, Giocasta smise di prendere contraccettivi; e da allora, a forza di pratica, Laio aveva imparato a togliere il preservativo dalla confezione e infilarselo anche con la sola mano sinistra, in cinque secondi netti. Nessuno dei due pensava che ad alzare un po’ il gomito per gioco una sera ci sarebbero state delle conseguenze. Ma sono sempre i migliori nuotatori ad affogare.

– E ne sei sicura, disse lui sorseggiando la tisana (ma desiderando intensamente un Manhattan).

– Ho fatto il test due volte. La seconda volta mezz’ora fa, prima che tu tornassi.

– Siamo nei guai.

– Sì.

– Mi dispiace, Giò. Non so che fare.

– Nemmeno io. Ma so che ora tu ti siedi qui con me e ne discutiamo.

– Sono già seduto.

– Bene. Siccome sono incinta, il drink lo puoi bere tu?

– Magari.

E lo bevve d’un sorso.

– Allora, cominciò Laio. – Prima cosa. Chi altri lo sa?

– Tu e io.

– Ok. Penso che per il momento non diciamo niente a nessuno.

– Sono d’accordo.

– Soprattutto penso che il Parlamento e il Primo Ministro non debbano saperlo.

– Ci mancherebbe altro. Mi butterebbero giù dalle scale a calci.

Appena sposati, Laio e Giocasta erano andati in pellegrinaggio all’oracolo di Delfi per avere, come da tradizione, i responsi sul futuro del regno che avrebbero ereditato da Labdaco, e sulla prosperità della monarchia tebana. L’oracolo aveva imposto loro di non fare figli naturali, poiché il figlio di Laio e Giocasta avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Uomo avvisato, eccetera. Nell’apprendere la notizia, il Parlamento aveva subito votato il divieto alla coppia reale di figliare, non tanto perché Laio non potesse anche solo adottare o nominare un erede al trono a sua esclusiva discrezione – la Costituzione glielo permetteva – ma perché volevano inchiodarlo a quest’angoscia e al senso di colpa che ne derivava, e di conseguenza indebolirlo. I due avevano allora pensato ad adottare un bimbo; poi, assorbiti dal lavoro lei e dai propri doveri lui, o forse fin dall’inizio convinti solo a metà di diventare genitori, la cosa era naufragata.

– Ok, disse allora Laio. – Chiarito che per il momento non lo sa nessun altro e abbiamo libertà di manovra, cominciamo a pensare a delle soluzioni.

– Ce n’è una sola, rispose lei guardando dritto dinanzi a sé, come rapita da una forma a mezz’aria invisibile a tutti tranne che a lei. – Ed è quella più ovvia.

Laio non disse niente.

– Vado in consultorio domani, continuò lei – firmo quello che devo firmare e lascio fare il loro lavoro ai medici. Aborto libero, legale e sicuro. Se mi va bene, pure assistenza psicologica gratuita.

– Quella la possiamo pagare, Giò. Non fare la pitocca.

– Sì, scusa. Insomma, mi hai capito. Abbiamo la fortuna di vivere a Tebe, che è un posto civile. Sfruttiamola. In due o tre giorni sarà come se niente fosse accaduto.

– Sono con te, se te la senti. Ma te la senti?

– No.

Laio provò a farle una carezza; Giocasta si ritrasse. Laio allora si alzò, chiedendole se beveva qualcosa. Giocasta rispose che tutto sommato aveva voglia anche lei di una tisana.

– Tipo la tua, cos’è? Zenzero e limone, immagino?

– Aha.

– Ecco. Quella, grazie.

E continuò a parlare mentre Laio, in cucina, rimetteva il pentolino sul fornello:

– Non osare giudicarmi, va bene?

– Ti ho sposata. Come vuoi che ti giudichi?

– Non m’importa. Ci penso già io a credermi pazza senza che ti ci metta anche tu.

– Tesoro, non ho detto una parola in tal senso.

– E continua a non farlo. Che mi succede, Laio? Tu avevi sposato una progressista. Ero in piazza per l’aborto che nemmeno avevo sedici anni. Poi per il divorzio breve. Poi per le unioni civili. So tutto sulla genitorialità responsabile.

– Ovvio che sì.

– Ed è proprio la responsabilità che sento verso questo bambino non nato, e verso la nostra comunità, che mi sta dicendo di interrompere questa gravidanza. Mi capisci, vero?

– Ti capisco perfettamente, rispose Laio tagliando lo zenzero. – Io non ho nessuna voglia di mettere al mondo un figlio che mi ammazzerà e andrà a letto con te. Ci starebbe peggio lui di noi, poverino.

– Appunto. Dunque io vado e interrompo la gravidanza.

– Se te la senti.

– No.

– Parliamone. Cosa ti turba?

– Io non voglio ferri nella mia pancia. O pillole.

– Onesto.

– Proprio zero. Nessuno deve avvicinarsi alla mia pancia. Soprattutto non adesso che c’è una vita dentro. Mi viene la nausea se solo ci penso.

– Sul decreto c’è scritto aborto libero, non obbligatorio.

– E infatti io non sono incoerente.

– Non lo sei.

Laio rientrò con la tisana e la versò a Giocasta, che si mise la tazza fumante sotto il naso e chiuse gli occhi.

– Però non ci riesco, Laio. Non voglio gente che metta le mani giù nel parco giochi.

– Giò, lo possiamo dare in adozione. Lo sai, questo.

– No che non possiamo. Primo, se il bambino resta vivo, potrebbe comunque compiersi la profezia. Secondo, il decreto del Parlamento mi vieta di portare a termine una gravidanza con te, punto e basta. Non è previsto che lo diamo via dopo la nascita.

– Non è previsto, ma è perfettamente fattibile.

Giocasta rimase in silenzio per un attimo. Laio continuò:

– Certo, dopo nove mesi che te lo sei portata in pancia, non so con quanta leggerezza in cuore lo daremo ad un’altra famiglia senza che tu nemmeno lo abbia visto. Ma io non ho un utero, e forse è meglio che stia zitto.

– Continua, ti prego. Stiamo mettendo sul piatto delle alternative. In che modo riuscirei a passarla liscia a Tebe con tuo figlio in pancia?

– Conosco una clinica fuori città dove un bel po’ di medici mi devono più di un favore. Io ti faccio ricoverare lì negli ultimi mesi, e questi danno via il bambino appena nato a una famiglia di cui noi ovviamente non sapremo niente. Il Parlamento e il Primo Ministro non verranno informati. Tu non sei Regina Consorte e a parte il fatto che vivi in una reggia, per i giornalisti e l’opinione pubblica è come se non esistessi. Nessuno si chiederà che fine hai fatto se vai via due o tre mesi, che ne so, a farti i bagni termali.

Giocasta provò a bere, ma era troppo caldo.

– Ok. Abbiamo due soluzioni pratiche, concluse.

– E hai tempo per decidere. Potrai, credo, interrompere la gravidanza in sicurezza ancora per qualche mese.

E questa volta, quando allungò la mano verso Giocasta, incontrò la sua guancia prima, e poi la sua mano, che strinse.

– Qualunque sia la tua decisione, io sono qua.

Giocasta sospirò.

– Puoi spegnere la luce, per favore? Mi sento guardata.

– Da chi?

– Da tutto quello che c’è in questa stanza. I quadri, le lampade, le sedie. Porta pazienza, La. Mi serve un po’ di buio.

– Poi posso restare?

– Voglio che resti.

Laio si alzò e spense tutte le luci. Poi tornò a sedersi accanto a sua moglie. Non si vedeva altro se non le quattro finestre del salotto, e al di fuori di esse, la downtown di Tebe con i suoi grattacieli e le luci rosse, gialle e blu delle sue strade piene di macchine, dei suoi ristoranti e dei locali notturni. Con l’inquinamento luminoso degli ultimi anni, se poco poco c’era una nuvola in cielo, rimandava in basso le luci della città, lampeggiando di un rosa malaticcio e oltremondano; sicché non pareva né notte né giorno, ma un’eterna penombra. All’orizzonte, per com’era orientato il salotto, si vedevano l’Elicona e il Citerone come due gobbe solitarie e remotissime in mezzo alla pianura. Di tanto in tanto si sentiva la sirena di un’ambulanza.

– Hai tempo per decidere, ripeté Laio.

– Sì.

– Possiamo parlarne quanto vuoi.

– Grazie.

– Domani, e dopodomani, e il giorno dopo. Quando vuoi. Posso darmi malato e rimanere a casa con te.

– So dove trovarti se ho bisogno, rispose Giocasta con un filo di voce.

Poi, dopo un minuto di silenzio:

– La.

– Sì?

– Se per assurdo potessimo tenercelo e crescerlo noi, come lo vorresti chiamare?

– Il mio nome preferito per un bimbo è sempre stato Alessandro. Il difensore degli uomini.

– Non è male. Io avevo pensato a Hakamaniš.

– Ma è un nome persiano.

– Che palle, La, solo perché siamo in Grecia sempre nomi greci. Hakamaniš suona bene. Achémene, se preferisci che suoni meno esotico.

– E che significa?

– Colui che agisce come un amico.

Rimasero in silenzio. Poi lei disse:

– Non so perché ho iniziato questo discorso del nome. È una tortura inutile.

– Non credo che né io né te siamo particolarmente lucidi al momento.

Giocasta scattò in piedi:

– Laio!

– Eh.

– Non hai risposto alla prima delle mie obiezioni. Se lo diamo in adozione anziché abortirlo, non rischia di compiersi ugualmente la profezia?

– Non è un se, Giò. È un quando. Delfi non sbaglia un colpo dall’inizio dei tempi. Se questo bambino verrà al mondo, sia che lo teniamo sia che lo diamo via, fosse pure ai confini della terra, un giorno ucciderà me e sposerà te.

Giocasta si mise la faccia tra le mani.

– E allora vedi che si torna sempre lì. Non abbiamo due alternative uguali. Una è migliore e l’altra peggiore. E la migliore è l’interruzione della gravidanza.

– Giocasta, non credo che giudicare in questi term-

– Ma io non riesco a non farlo nascere. Anche se il costo sarà così atroce. Non posso non darlo alla luce.

– Si spezzerebbe il cuore anche a me, rispose Laio.

Poi, dopo un minuto di silenzio, aggiunse:

– Abbiamo tempo per pensarci.

– Ma possiamo sacrificare tutto per una creatura non ancora nata…?

– Abbiamo tempo per pensarci.

– Persino la sua felicità…? Ci siamo sempre concentrati sulla morte e sull’incesto, ma la sua reazione quando saprà…? Perché quando saprà cosa ha fatto, capace che si ammazza.

– Magari viene fuori cinico e non gliene fregherà niente, Giò. Nascono certi stronzi da gente più amabile di me e te. O magari non lo saprà mai.

– Eh?

– Magari mi ucciderà senza sapere che io sono suo padre, e sposerà te senza sapere che sei sua madre, e forse morirà con questa convinzione, in pace e dopo una lunga vita.

– Ma tu morirai comunque ammazzato.

– Magari manco me ne accorgo. Potrebbe uccidermi nel sonno. Che ne sai?

– Dobbiamo pensarci. Dobbiamo pensarci bene.

Laio finì la sua tisana e l’appoggiò al tavolo. Afferrò la teiera per versarne un altro po’ a sé e a Giocasta. Nella penombra, riuscì a non versare niente sul pavimento.

– Siamo qui apposta, Giò. Non credo che al momento ci sia altro di più importante da fare.

E ne parlarono ancora e ancora, per giorni o forse settimane. Alla fine presero la decisione che sembrava la migliore – un compromesso che, se non avrebbe salvato loro due, avrebbe forse dato una chance al pupetto: darlo in adozione, e sperare che non scoprisse mai la verità. Quando l’assistente sociale venne a dir loro, mentendo, che non aveva potuto dare in adozione il bambino perché era morto – in realtà lo aveva dato al servo di Polibo, Re di Corinto – pensava forse di fare del bene, di tranquillizzare le loro coscienze. Ma se, credendo morto il pupetto, Laio e Giocasta poterono dimenticarsi della profezia, ebbero sempre in cuore l’amarezza di avere tanto penato e discusso e non avere ottenuto nulla, perché il pupetto che avevano deciso di far nascere era morto a pochi giorni di vita. Laio morì assassinato da suo figlio con quest’amarezza in cuore. Giocasta ebbe la disgrazia di scoprire quello che a suo marito fu risparmiato; e realizzò allora, poco prima di impiccarsi alla trave del letto, quanto gli sforzi suoi e di Laio fossero stati ancora più inutili di quello che credeva.

***

Immagine in alto: Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, olio su tavola, 1434, Londra, National Gallery

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