Trovo nell’ultimo numero dell’Immaginazione (nella traduzione di Ariodante Marianni) uno dei sonetti che Shakespeare ha scritto a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento ma che potrebbe essere stato scritto oggi:
LXVI
Stanco di tutto, morte, perché venga,
chiamo a gran voce: stanco di vedere
nascer pezzente il merito, e in baldoria
la bisognosa nullità sfrenarsi,
e violata la più pura fede,
e gli aurei onori spudoratamente
mal tributati, e la verginità
brutalmente corrotta, e a torto offesa
la perfezione, e da poteri imbelli
debellata la forza, e imbavagliata
l’arte dai governanti, e la demenza
sdottoreggiando controllar l’ingegno,
e verità semplicemente detta
presa per dabbenaggine, e asservito
il bene schiavo al suo padrone il male.
Stanco di tutto questo, da ogni cosa
liberarmi vorrei, s’io non dovessi,
morendo, lasciar solo l’amor mio.